La prima cosa che farai.

Cronaca di un chiudere tutto. Quando abbiamo iniziato a vedere i messaggi “Andrà tutto bene” con l’arcobaleno sulle lenzuola appese alle finestre, non sapevamo ancora che gli “abitanti dei balconi” si sarebbero trasformati a breve, da figli dei fiori che cantano Rino Gaetano a giustizieri della notte, che fanno fotografie per denunciare quelli che escono di casa più di una volta al giorno. Non sapevamo ancora che qualche settimana dopo, lo scenario sarebbe diventato molto più simile a quello descritto nel libro di Saramago “Cecità”, in cui si narra di un’epidemia di cecità che colpisce l’umanità innescando una guerra di tutti contro tutti.

Erano le 12.00 del 14 marzo 2020. Sembrava stesse iniziando a piovere. In realtà non stava piovendo, ma le persone erano uscite sui balconi per fare un applauso. Da solo qualche giorno infatti i provvedimenti per tenere tutti a casa erano diventati più severi e già mi sembrava che la gente stesse iniziando a impazzire. Non sono una fanatica di questo tipo di iniziative simboliche, ma in questo momento ognuno ha il diritto di trovare le sue strategie per non farsi prendere dallo sconforto.

Da quel 14 marzo è quasi passato un mese e la situazione non sembra migliorata. Altri Paesi europei e del mondo hanno adottato, sebbene con riluttanza, il sistema “chiudi tutto” all’italiana.
Il vento russo, i medici da Cuba e le mascherine dalla Cina sono arrivati recentemente nel nostro Bel Paese, come per suggerire che forse qualcosa non ha funzionato nel gestire il nostro mondo e la nostra economia globale. E che forse, almeno in Italia, invece di comprare aerei militari, avrebbero dovuto investire più risorse nella sanità pubblica.

Il piacere delle attività fastidiose. Improvvisamente abbiamo molto più tempo, ma non possiamo usarlo probabilmente nel modo che preferiamo. Ognuno, a seconda della sua situazione familiare casalinga, trova le sue strategie per mantenere il contatto con la realtà. La prima settimana sono caduta nel mood creativo alla “Prova del cuoco”, pur odiando cucinare e non essendo particolarmente portata per questa attività. I risultati sono stati pessimi e, quando hanno iniziato a scomparire il lievito e la farina, devo dire che ho tirato un sospiro di sollievo.

Ringrazio il cielo per vivere da sola. La mia zitellaggine e la mia scarsa propensione alla convivenza con altre forme di vita in questo caso mi hanno salvata. Se fossi rimasta prigioniera con un marito, un compagno, dei figli, un amico, un comune coinquilino…ve lo dico, sarebbe finita malissimo!
Una cosa è certa. Chiusi tra quattro mura la vita e il tempo assumono un significato diverso. Le cose che prima facevano da contorno, o addirittura da fastidio, alla nostra quotidianità diventano “speciali” e fondamentali per la nostra sopravvivenza fisica e psicologica. Quelle che non puoi più fare, finiscono per mancarti.

LA SPAZZATURA piena di sé. PRIMA c’erano periodi in cui i sacchi della mia raccolta differenziata letteralmente esplodevano in cucina, quasi prendendo vita. Non avevo mai sufficiente tempo (o voglia) per fare quei 5 minuti di strada, raggiungere i cassonetti e liberarmene. Il contenitore della plastica era sempre il più cafone, pieno e tronfio per ricordarmi quanti rifiuti plasticosi produciamo…maledetto packaging, mi dicevo! D’altronde, se c’è l’isola di plastica nell’oceano un motivo ci sarà.
ADESSO la gita ai cassonetti si è trasformata in un evento da programmare con l’entusiasmo che manco le ferie estive. Divido il carico in sacchetti più piccoli, per fare più giri, e strategicamente aspetto una giornata di sole, tiepida, per poter passeggiare fischiettando come se stessi andando alla grigliata di Pasquetta.
Ora la fa da padrone il sacchetto del vetro, che di solito svuotavo una volta al mese, se andava bene. Colmo e fastidiosamente tintinnante, cerca di ricordarmi che forse dovrei darmi una regolata con gli aperitivi via Skype.
I giustizieri della notte al balcone, quando vado a buttare il vetro (in genere due sacchi alla volta), mi fissano giudicanti e con sguardo sprezzante. TIN TIN TIN…una bottiglia alla volta, producendo quel fracasso insopportabile. E’ come se avessi una freccia al neon puntata contro che mi identifica come prossima all’alcolismo. Al secondo sacco inizio a sudare col timore che qualcuno dai balconi sopra di me mi lanci qualcosa addosso. Io comunque non sceglierei mai di vivere in un appartamento che ha sotto un contenitore del vetro.

IL SUPERMERCATO e il potere di scansare la gente. Il momento della spesa per me è sempre stato un incubo. Odio i supermercati, con i loro corridoi sempre troppo stretti e affollati, la gente che si accalca e quell’infinita varietà di prodotti e offerte che ti fanno flippare. Se prima ci andavo malvolentieri figuriamoci ora, che fuori c’è la fila di zombie alla Walking Dead munita di mascherine. Una botta di vita ed entusiasmo proprio, in caso non fossi già abbastanza preso male. Una volta mi è preso un attacco di tosse da “grattino in gola”, quello che non smette manco con l’acqua e ti vengono i conati. Sono dovuta tornare a casa per non farmi linciare.

Però fare la spesa è l’unico momento settimanale di libera uscita, quindi bisogna viverlo con gioia e cercare di vedere i lati positivi, come per esempio quello di avere finalmente la gente lontana. Al mio passaggio tutti si fanno da parte e mi sento come se avessi il superpotere di fare scansare la gente. Il distanziamento sociale nel supermercato mi piace un sacco. Fare la spesa con i guanti di plastica che ti impediscono di aprire i sacchettini per la verdura e di cliccare sullo schermo del telefono per vedere la lista della spesa, un po’ meno.

LA PALESTRA in pigiama. PRIMA era supplizio e sacrificio, ogni volta che arrivava il “giorno della palestra”. Dovevo solo scendere le scale per arrivare, ma tutte le volte facevo i capricci mentali per andarci, anche se una volta tornata mi sentivo una persona realizzata.
ADESSO mi sono trasformata nella campionessa del fitness casalingo. Ogni giorno attaccata a youtube con la signorina che fa gli esercizi eseguendo gli ordini del suo personal trainer preso bene. Lei non ha mai il fiatone e soprattutto non suda mai. Io mi rendo conto di essere davvero goffa, scoordinata e “incriccata”, come mi diceva il mio istruttore. Però mi alleno tutti i giorni e diventerò sicuramente miss addominali e glutei di marmo sotto il pigiama. Ormai io e la “signorina fitness” siamo quasi amiche, di certo sembra più amichevole dei miei compagni di palestra che in un anno non mi hanno mai rivolto la parola.
Ho anche provato lo yoga, ma a parte il fatto che sono snodata come un manico di scopa, devo dire che mi fa incazzare tantissimo.

IL TRENO e le sue prestazioni. Non avendo mai posseduto un’automobile, ho sempre viaggiato, ahimè, con i mezzi pubblici per la maggior parte della mia esistenza. Ho sempre avuto con il treno un rapporto molto conflittuale. Non è un mistero che il sistema ferroviario italiano non ci regali prestazioni esaltanti.
PRIMA per lavoro prendevo il treno tutti i giorni. Un viaggio di 13 minuti riusciva a trasformarsi in un’esperienza carica di stress: SEMPRE ritardi, problemi sulla linea, vagoni troppo caldi che ti fanno sudare manco avessi fatto la maratona, troppo freddi proprio il giorno in cui ti sei vestita a strati 4 stagioni per affrontare gli sbalzi termici, infiltrazioni di acqua, cacchette di animaletti non ben precisati. Il treno ha fatto talmente parte della mia via che ho dato un nome alle diverse tipologie di convoglio:

  • Il treno vintage: con quei colori pastello sbiaditi e i sedili che sembrano cuscini cuciti su panche di legno, sembra di fare un viaggio romantico indietro nel tempo;
  • Il treno “ikea”: quello che ha i sedili in simil plastica con una specie di sporgenza laterale all’altezza della testa, nella quale sbatti la nuca puntualmente ogni volta perché ti dimentichi della suddetta durissima sporgenza;
  • Il trenino rosso: il nuovo acquisto della regione VDA inizialmente ha entusiasmato tutti con il suo colore rosso, i sedili puliti e l’immagine di un cuore con mucche e fontina sulla fiancata. Comunque prontamente si è fatto odiare dai pendolari, a causa del suo consueto ritardo, la mancanza di un numero di posti a sedere sufficiente e di spazio adeguato tra i sedili, che ti costringe a viaggiare con le ginocchia della persona di fronte in faccia.
  • Il container: è il grande classicone interregionale, quello per esempio che copre la tratta Torino- Milano. E’ un container di lamiera incandescente, con i finestrini bloccati quando fa caldo e i finestrini irrimediabilmente s-bloccati e aperti quando di gela, e che alle ore di punta è un crocevia multiculturale di persone ammassate e imbruttite.

ADESSO il treno mi manca, i viaggi della speranza in treno mi mancano, l’umanità di pendolari mi manca. Nel mio immaginario di persona in quarantena, il treno non è più solo un odioso mezzo da poveri per raggiungere un punto B da un punto A, ma un simbolo della libertà di movimento che ora ci è stata tolta.

Paladini del Carpe Diem. Non so se alla fine di questo periodo cambierà qualcosa in meglio. Tornare alla normalità sarà difficile e avverrà lentamente…Sempre che tornare alla vita di prima sia la cosa migliore. Sicuramente da questa esperienza ognuno di noi avrà imparato qualcosa. Forse avremo capito quanto le nostre vite siano appese a un filo invisibile, o come le libertà che diamo per scontate, in realtà non lo siano affatto.
Ci sarà chi si sarà reso conto di quanto tempo per noi e i nostri cari ci toglie la vita frenetica di tutti i giorni. Ci sarà chi avrà scoperto il piacere di stare insieme in famiglia a fare gli gnocchi, chi avrà ricominciato a parlare con un amico lontano, chi avrà capito che sa cavarsela anche solo. Avremo tutti imparato qualcosa in più su noi stessi, sia di positivo che di negativo.

Sospesi in questo limbo immobile, qualcuno di noi starà pensando alle volte in cui, nella “vita precedente”, ha temporeggiato, rimandando decisioni per mancanza di tempo o di coraggio. Viviamo con la certezza che tutto possa essere posticipato a un momento migliore, ma a volte questo momento non arriva mai. Soprattutto adesso, che siamo in stand-by, vediamo svanire le nostre possibilità passate, come granelli di sabbia tra le mani. AVRESTI DOVUTO FARLO PRIMA, ti ripete il cervello.
Io per esempio dovevo comprare lo scopino per il wc, perché quello vecchio lo avevo usato con la sapienza di Mc Gyver per sturare il gabinetto intasato. Ora non trovo uno scopino nuovo da nessuna parte ed è quindi diventato il simbolo della mia abilità di procrastinatrice seriale.
Ma sono certa che un giorno tutto sarà finito e da questo periodo di “sospensione” rinasceremo paladini del CARPE DIEM, quelli che non preferiscono il divano e il piumone a un’uscita serale, quelli che non fuggono di fronte alle responsabilità e quelli che quando avranno fatto fuori uno scopino, lo ricompreranno subito.

La prima cosa che farai. Qual è la prima cosa che farai una volta che sarai di nuovo libero/a?
Me lo chiedo spesso e cerco di immaginare quel momento. Sarà emozionante come quando si fa qualcosa per la prima volta? Sarà come quando si incontra di nuovo una persona che non si vede da tempo? Sarà diverso o sarai tu diverso? Cosa ci sta mancando di più?
Per quando mi riguarda, penso che la prima cosa che farò sarà correre a prendere il treno, quel treno che tanto mi fa stancare e arrabbiare. Non so se lo prenderò per raggiungere il lavoro o se invece sarà quel treno immaginario, simbolico, che mi apre al movimento, che rappresenta il viaggio lento, la conoscenza. In ogni caso, questa sarà la prima cosa che farò.

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Sono un bambino. Sono un lavoratore. E lotto.

Maria non si era mai vista in una foto. La sua prima foto gliela scattai e regalai io. Ricordo ancora il suo sorriso e la sua emozione per questo semplice dono.
All’epoca gli smartphone non esistevano ancora. O meglio, non erano diffusi tra le persone comuni neanche in Europa, figuriamoci nel deserto del sud del Perù.
Io lavoravo nella Commissione per i Diritti Umani della Regione di Ica, occupandomi di formazione e sensibilizzazione nei distretti con il più alto indice di violenza verso l’infanzia. Portavo sempre la macchina fotografica con me e scattavo foto per la rendicontazione delle attività che svolgevamo.

Maria era la Dirigente del gruppo NNATS (bambini e adolescenti lavoratori organizzati) de La Venta, una comunità rurale a mezz’ora dalla città di Ica. Aveva 15 anni e come Dirigente aveva il compito di riunire i minori lavoratori della sua zona, discutere con loro le diverse problematiche e valutare possibili soluzioni anche attraverso il confronto con i leaders adulti della zona.
La sua “base” (ovvero il suo gruppo NNATS) si chiamava CANNTA, campesinos adolescentes y niños trabajadores organizados (contadini, adolescenti e bambini lavoratori organizzati) perché tutti i suoi membri lavoravano per l’appunto in ambito agricolo. Erano occupati nella coltivazione o nella raccolta di verdura, frutta e cotone.

Lo so, lo so, associare la parola “bambino” alla parola “lavoro” fa orrore a tutti. Pensare a un bambino che lavora fa una certa impressione a noi abitanti dei Paesi ad alto reddito. Vederlo con i propri occhi, mentre lucida scarpe o vende canchita per la strada, all’inizio fa sentire a disagio. Dico all’inizio, perché quando le situazioni le conosci in modo più approfondito, la cosa fa meno impressione.
Certo, in un mondo ideale i bambini non dovrebbero lavorare, ma giocare e vivere un’esistenza serena e priva di responsabilità. Ma a volte la realtà è ben diversa dall’ideale…oltre al bianco e al nero ci sono le sfumature.

In Perù ci sono circa 2 milioni di bambini e adolescenti lavoratori, anche se il lavoro minorile ufficialmente è illegale. Però è accettato. I rappresentanti dei movimenti siedono allo stesso tavolo degli adulti quando è il momento di prendere decisioni. Si parla di bambini tra i 6 ai 17 anni, che vanno sia scuola che al lavoro per aiutare le loro famiglie a sostenersi, per comprarsi magari proprio l’ uniforme scolastica obbligatoria. Si parla di bambini e adolescenti in grado di organizzarsi in autonomia, di parlare in pubblico e davanti alle autorità.
Il MNNATSOP è uno dei loro movimenti nazionali organizzati, simile ai nostri sindacati. A livello locale, ogni comunità ha un suo leader democraticamente eletto che, incontrandosi con altri leaders di bambini e di adulti, si mobilita e lotta per rivendicare i diritti dei minori lavoratori.

Ho visto con i miei occhi bambini delle elementari fronteggiare membri del Governo Regionale o dello stesso Parlamento. Cosa vogliono? Non che il lavoro minorile sia abolito, come sarebbe facile credere. Al contrario, vogliono che sia riconosciuto e quindi tutelato. “Un conto è lavorare per provvedere ai bisogni della propria famiglia, un altro conto è essere sfruttati o essere esposti al pericolo” mi è stato più volte detto.

I NNATS, malgrado arrivino da un contesto famigliare e socio-economico precario, non vogliono sentirsi vittime. “C’è una bella differenza tra vendere caramelle e mendicare” tengono a precisarlo sempre. Non vogliono sentirsi dire che i bambini dovrebbero solo giocare, facendosi imporre dall’alto una concezione dell’infanzia che non tiene in considerazione il contesto socio-economico in cui vivono.

Chiaro, le diseguaglianze del mondo dovrebbero svanire e il diritto all’infanzia dovrebbe essere rispettato ovunque. Ma fino a quel momento, probabilmente molto lontano nel tempo, bisogna mangiare qualcosa. E per mangiare qualcosa, in una famiglia numerosa e con scarse risorse economiche, tutti devono lavorare. E’ facile sentirsi dire da un NNAT: “Certo che voglio lavorare, sennò cosa mangio? Quello che cerchiamo è piuttosto la dignità del lavoro, il rispetto.”

Sebbene Ica sia una regione desertica, vive di agricoltura. Essere contadino nelle comunità vicine a Ica non significa solo condurre una vita umile, lavorare nei campi e vivere di sussistenza. No. Vivere da campesino significa vivere in condizioni di povertà. I terreni sono di proprietà di grandi imprese, per lo più cilene, che comprano la terra, fanno costruire pozzi e privatizzano così l’uso dell’acqua.
A La Venta non c’era acqua potabile. L’acqua scorreva solo due volte a settimana, tra l’altro solo in alcune ore. Alcune famiglie (molte delle quali sono scappate da Ayacucho e dalla sierra in seguito al terrorismo e alla violenza militare degli anni 80) in origine possedevano appezzamenti di terreno, ma sono state costrette a venderli a causa della mancanza di acqua e di soldi da investire per poter irrigare. Così i lavoratori dei campi tornano a casa con pochi soldi e sapendo di dover comprare il cibo proprio dalle stesse imprese che li sfruttano.

Maria lavorava in un’azienda che coltivava uva (probabilmente destinata alla produzione del tanto proclamato vino dulce e del pisco) ed era pagata 20 soles al giorno per lavorare 12 ore (1 euro sono 3, 50 soles).
Come insegna la nostra Madre Primo Mondo, la povertà non è una condizione naturale, ma spesso è frutto della ricchezza sconsiderata di qualcun’altro.

Il primo maggio i NNATS sfilano con il loro cartelli per la città. Anche io, in quell’anno di vita a Ica, ho sfilato con loro durante le varie ricorrenze. Questi bambini e adolescenti combattenti mi hanno fatto un grande regalo: mi hanno insegnato che bisogna saper guardare la realtà anche da un punto di vista completamente diverso dal nostro. Inoltre, con le loro storie e la loro lotta mi hanno insegnato il vero significato della parola RESILIENCIA.

Che la loro lotta continui, quindi!

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Ica, tornare a casa.

La vita è quello che ti succede quando stai pianificando altro. Nel lontano 2011, fresca di laurea magistrale, stavo cercando disperatamente un modo per tornare nella mia amata Bolivia. Invece davanti a me si aprì la porta del Perù. Mi ero candidata per un progetto del servizio civile nazionale a La Paz ed ero stata dirottata su un altro per motivi di “compatibilità del mio cv”. Avrei potuto rifiutare e continuare il mio stage post-laurea nella segreteria dell’università, oppure partire per Ica, destinazione a me sconosciuta nel cuore del deserto del Perù meridionale. A fare che? Non avevo ben capito…tipo occuparmi di diritti umani, bambini lavoratori…sembrava interessante. Mi avevano dato una notte di tempo per pensarci e, malgrado mi si fosse spezzato il cuore nello scoprire di dover rinunciare a La Paz, accettai. Lasciai il lavoro e nel giro di pochi mesi ero dall’altra parte del mondo per fare, ancora non lo sapevo, una delle esperienze più forti, emozionanti e formative della mia vita.

Abitare Ica. Mi è sempre piaciuta l’idea di viaggiare non tanto come turista, quanto come “abitante” di un altro angolo di mondo. Visitare è una cosa, abitare tutt’altro. Forse andarsene, uscire dai confini di “casa”, significa sperimentare un’altra versione di noi stessi. Almeno così è stato sempre per me.

Ricordo ancora quando, dopo un viaggio di 5 ore su una jeep partita da Lima, io e la mia compagna di volontariato siamo approdate a Ica, cittadina circondata dalle dune del deserto. Era notte, le strade erano colme di rifiuti e facce che sembravano poco raccomandabili. Gran parte del centro cittadino era pieno di macerie ed edifici distrutti (chiese comprese) dal terribile terremoto che colpì la città nel 2007. Il primo impatto fu angosciante. E anche le prime settimane lo furono: non conoscevo ancora nessuno e mi resi conto che, da “gringa”, non era proprio il massimo girare da sola per le strade. In poco tempo la gente sapeva chi ero e dove abitavo, anche perché eravamo tre “bianche” a vivere in città. Io, la mia compagna di viaggio italiana e una volontaria americana (che purtroppo è stata sequestrata e violentata da un tassista).

Noi vivevamo in quartiere poco raccomandabile, uno di quelli che “non te lo consiglio”. Ma i vicini ci controllavano casa quando eravamo fuori, le finestre avevano le sbarre e, inoltre, era molto più pericoloso vivere in un quartiere “bene” perché è lì che vanno i ladri a rubare. A parte Nando, uno strano personaggio che abbiamo trovato sul nostro tetto e ci ha fatto spaventare, non abbiamo mai avuto particolari problemi. Nando era sul tetto perché, per procurarsi un lavoro, tagliava i cavi delle tv in modo da essere chiamato per sostituirli. L’affascinante arte del sopravvivere.

Ica non aveva proprio niente di turistico. Era (ed è tutt’ora) una città sporca, rumorosa, pericolosa e mezza distrutta.
La plaza de armas, cioè la piazza principale, era l’unica a non avere macerie. Al centro c’è un obelisco di cemento e quattro fontane che rappresentano le quattro lagune che una volta c’erano a Ica.
Tutto intorno, come su una giostra, gira tutta l’umanità iqueña.
I lucida scarpe, con il loro sgabello di legno, puliscono le scarpe dei signori seduti sulle panchine a leggere il giornale o a prendere un po’ di ombra (sì perché a Ica fa caldissimo, sempre). I taxi e i mototaxi strombazzano in continuazione per cercare clienti. Ci sono signore che girano tra i passanti con l’apparecchio per misurare la pressione; ci sono quelle che hanno una bilancia e si fanno pagare per pesare le persone. Davanti alle banche ci sono uomini che cambiano i soldi abusivamente. I più “vintage” e romantici però sono quelli seduti davanti a una macchina da scrivere, per aiutare gli analfabeti a comporre lettere o documenti. A Ica infatti c’è un forte tasso di analfabetismo e una grande presenza di persone di origine quechua, che all’epoca del terrorismo e della dittatura scapparono dalla sierra verso le regioni costiere.

Qualcosa di turistico però c’è. A pochi km dal centro di Ica ci sono delle bellissime dune e la laguna di Huacachina, intorno alla quale si è sviluppato per l’appunto tutto il centro turistico. I viaggiatori non soggiornano a Ica, ma vanno direttamente dalla stazione dei bus a Huacachina, dove ci sono alberghi e ristoranti cari di pessima qualità. Il luogo è molto suggestivo, anche se dopo un po’ annoia. Si può fare sandboard (cioè buttarsi giù per le dune con una tavola) o fare un tour da urlo sui Tubulares, delle specie di auto a più posti che si catapultano a tutta velocità tra le dune (rovinandole, perché distruggono la suggestiva forma naturale che gli dà vento).

Ecco, durante il mio anno di permanenza, a Huacachina non ci sono andata quasi mai. Preferivo confondermi tra gli abitanti di Ica, farmi mandare i baci dai mototaxisti, prendermi spintoni per la strada e, soprattutto, perdermi negli asentamientos humanos polverosi nei quali lavoravo (e dove spesso andavo da sola) e che, pensate un po’, erano stati selezionati come beneficiari dei progetti proprio a causa dell’elevato tasso di violenza e violenza (non denunciata) verso i minori. Fico eh? Non sapete quante volte ho chiamato piangendo il mio coordinatore perché mi ero persa o perché le persone non si erano presentate all’appuntamento per il corso di formazione. Tante. Abbastanza da farmi soprannominare “llorona” (piagnona).

Nonostante. Nonostante la rottura di dover sempre stare attenta ogni volta che mettevo il naso fuori casa, perché a Ica i sequestri e gli “assalti” per derubare sono all’ordine del giorno. Nonostante le ripetute infezioni intestinali, terminate all’ospedale pubblico con una flebo ficcata nel braccio. Nonostante la puzza dei rifiuti sparsi ogni dove e il costante rumore del clacson de taxi. Nonostante le frequenti scosse di terremoto.
Nonostante tutta una serie di cose, a Ica mi sono sentita a casa. E questa cosa l’ho capita recentemente, perché ci sono tornata dopo 8 anni.

A volte la bellezza dei luoghi e delle esperienze la fanno le persone che si incontrano lungo il cammino. E in questo cammino io sono stata molto fortunata, perché le persone che hanno lavorato con me o mi hanno dedicato il loro tempo facendomi sentire accolta e protetta, hanno lasciato una traccia. E senza accorgermene forse anche io ne ho lasciata una.

Tornare a casa. Com’è tornare dopo tanto tempo in un posto dove siamo stati abitanti? Ecco… perché in 8 anni succedono molte cose in una vita. A me poi, dopo il ritorno dall’esperienza peruviana, me ne sono successe parecchie. Ho ridefinito la mia vita tante di quelle volte, che se dovessi raccontarla mi dimenticherei dei pezzi.

Tornare dopo molti anni in quel lontano angolo di mondo, è stato come fare un viaggio terapeutico alla ricerca della me stessa che avevo dimenticato.
E c’era. Era lì. Sono sempre stata lì, nelle tracce che ho lasciato, nelle persone che mi stavano aspettando da 8 anni.
E anche se all’inizio mi sono sentita un po’ disorientata, dopo poco ho ricominciato a sentire di nuovo mie le strade, a contrattare con i tassisti, a girare in cerca di frutti tropicali per i mercati, conversando con le persone curiose che mi chiedevano perché fossi lì.

Forse per la prima volta ho compreso cosa significhi “sentirsi a casa”. Casa è quel luogo in cui riesci ad entrare in contatto con te stesso, a riconoscerti. Magari puoi andare via, allontanarti per anni, ma quando torni è come se non te ne fossi mai andato. E tornarci, è come ritrovarsi.

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Natale in acido

Babbo Natale non esiste. Ho iniziato a odiare il Natale quando avevo 6 anni. Mia madre era entrata in camera mentre stavo giocando e, dopo anni in cui insieme a mio papà architettava ingegnose scenografie domestiche per farmi credere che un tale signore Babbo Natale passasse sul serio a casa mia a lasciare regali, non ce l’ha più fatta e ha confessato: “Guarda che Babbo Natale non esiste”. E poi se ne è andata richiudendo la porta. Ero stata vittima di un complotto.
Io a Babbo Natale ci credevo eccome. Ci credevo non solo perché mangiava la cena che lasciavo per lui la sera prima, non solo perché da bambina atea convinta avevo bisogno di qualcosa in cui credere. Ma soprattutto ci credevo perché da figlia di una casalinga e un operaio in cassa integrazione sapevo bene che tutti quei preziosissimi regali la mia famiglia non se li sarebbe potuti permettere. E a dire il vero Babbo Natale mi faceva anche un po’ paura…alla fine era un uomo sconosciuto che trovava il modo di entrare in casa con un sacco di roba senza fare rumore. Io, cresciuta a pane e Telefono Giallo, mi chiudevo a chiave in camera “che non si sa mai”.

Dopo il trauma della scoperta della non-esistenza di Babbo Natale, tutto cambiò in peggio. Quella festività non aveva più tanto senso, iniziai a odiare il Natale e forse anche il Natale iniziò a odiare me.

Educazione all’umiliazione. Natale era il momento in cui, all’asilo e alle scuole elementari, arrivava tragicamente il momento della recita. Io ero una bambina timida e abbastanza sociopatica, pertanto vivevo quelle esibizioni sul palco, davanti a una platea di genitori muniti di telecamera e macchina fotografica, come un affronto alla mia dignità e alla mia integrità psichica. Per fortuna grazie al mio caratteraccio e alle manie di protagonismo assolutamente assenti, mi toccavano sempre parti marginali durante lo spettacolo. Due frasi messe in croce pronunciate con un filo di voce, poi tentavo di sparire incollandomi alla parete. Una volta, all’asilo, avevo provato anche ad alzare la voce e a ribellarmi: “Io non la voglio fare la recita di Natale!”. Ovviamente, le maestre si risentirono e mia madre mi ci mandò a calci nel sedere. Mi ci avrebbe mandata a calci nel sedere anche con la febbre a 40.
Qualche anno dopo scoprii il perché. Quei filmati e quelle foto sono stati conservati per anni, mostrati agli amici, ai fidanzatini, ai parenti. Sono ancora lì in agguato nel mobile del salotto e sono stati usati come ricatto o arma di distruzione di massa. Le recite di Natale forse rientrano in un piano educativo più ampio: l’educazione all’umiliazione pubblica.

Il giorno del giudizio. A proposito di adolescenza e fidanzati, l’ansia da prestazione del Natale mi ha perseguitata anche nel corso dell’età quasi adulta.
Il Natale in adolescenza è stato di certo uno dei periodi peggiori. All’epoca tutti gli anziani di famiglia erano ancora vivi e ci si riuniva per grandi abbuffate di giorni ed ore. Nei giorni precedenti c’era la carovana degli auguri, visite interminabili a tutti i parenti del circondario, quelli che si vedevano solo in quell’occasione e che tendenzialmente parlavano di morti, malattia ed emorroidi.
Durante il pranzo natalizio le mie cugine, quasi mie coetanee, ci sottoponevano alla sfilata dei rispettivi fidanzati che, come i re magi, portavano doni di alto livello al suocero compiacente. Io ovviamente ero sempre sola, minore-non accompagnata, non solo perché davvero non riuscivo a trovare qualcuno che mi volesse, “maschiaccia” com’ero. Anche se avessi avuto qualcuno non lo avrei portato al pranzo di famiglia, neanche sotto tortura!
I momenti più divertenti a mio parere erano le litigate tra mia zia zitella (della quale mi sento diretta discendente) e mia nonna. Una volta fui testimone di un lancio di una coscia di pollo che manco alle olimpiadi.
Comunque la cosa peggiore era che il periodo di Natale si trasformava in una specie di giorno del giudizio, durante il quale venivo interrogata sui miei successi scolastici/universitari/lavorativi e, soprattutto, sui miei insuccessi sentimentali.
“Ce l’hai il fidanzatino?”
“No, nonna.”
“Ma quand’ è che ti fermi un po’ e ti sposi??”
(mai??)
“Ormai hai quasi 20/25/30 anni…”
(Eh…)
“Possibile che non riesci a trovare un lavoro?”
(Eh…)
“Non vedrò mai nascere i tuoi figli, tuo padre non avrà mai dei nipoti…”
(!!!)
“Ma cos’è che hai studiato tu? Ma che roba eh? Ma non potevi fare qualcosa di più utile? Era meglio se ti mettevi a zappare.”
(Eh…)
“25/30 anni buttati nel cesso.”

Finale drammatico per incolparti dell’infelicità di tutta la tua famiglia. Come se l’assenza di un lavoro stabile e il non essermi creata una famiglia fosse una colpa personale, frutto di una decisione ben precisa per creare dolore e confusione cosmica.

The dark side of Natale. Nell’età adulta, dopo le mie peregrinazioni per il mondo e prima di avere un lavoro “vero” stabile, sono entrata in contatto con il lato più tremendo del Natale…the dark side of Natale: il lato capitalista. Avevo trovato lavoro in un centro commerciale e già la situazione era alquanto drammatica per me, visto che io sono sempre stata allergica allo shopping e ai negozi. Facevo la cassiera in un megastore dove, per l’appunto, si vendevano anche decorazioni natalizie e soprattutto si imballavano, una a una, palline di Natale di qualsiasi tipo. Essere costantemente in contatto con la frenesia consumista del Natale, vedere persone completamente ossessionate dalla ricerca di regali e pronte a spendere l’equivalente del mio stipendio in decorazioni natalizie (probabilmente per colmare un vuoto esistenziale di altro tipo)…forse tutto questo mi ha fatto capire che non sono io la strana, ma sono “gli altri” ad avere un problema con il Natale.

Non sono io a odiare il Natale. È il Natale che odia noi.

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Salar de Uyuni: il cuore di sale della Bolivia

Siamo arrivate nella cittadina di Uyuni dopo un viaggio di 15 ore su un pullman scassato partito da La Paz. Non avevamo pianificato niente, ma in loco c’era pieno di agenzie specializzate che, senza bisogno di prenotazione, riescono a trovare posto ai turisti appena arrivati per i tour nel famoso deserto di sale. Quindi, senza neanche avere il tempo di riprenderci dal viaggio, ci siamo ritrovate sedute su una jeep con 5 turisti brasiliani: tre ragazze e una coppietta. Tutti molti simpatici e socievoli, peccato non capire una parola di portoghese. Non ci restava che chiacchierare con il nostro 20enne autista boliviano, che sembrava però già un 40enne. Neanche lui capiva una parola, ma si rideva comunque tutti insieme.

Come ogni viaggio all’avventura che si rispetti, io partivo con l’influenza. Tra l’altura, i germi e lo scombussolamento da stanchezza, non capivo più niente.
I tour del Salar durano 3 giorni e bisogna prepararsi ad affrontare molte ore di jeep, sveglie all’alba e sbalzi termici stratosferici…dal sotto zero al caldo soffocante. I pranzi normalmente sono al sacco e all’aria aperta; le cene invece avvengono in alloggiamenti famigliari nel deserto, senza quasi acqua corrente, luce elettrica e, ovviamente, senza riscaldamento. Lì, delle paffute cholitas cucinano ottimi brodi di pollo e riso, che dopo ore di tragitto nel deserto sembrano un menu da grande chef. Nei cortili di questi casolari, pascolano animaletti vari quali lama e alpache.

Io e la mia compagna di viaggio, per sopravvivere al freddo, abbiamo adottato la filosofia del “punkabbestia che si lava il minimo indispensabile”, tipo schizzandoci acqua gelida addosso o ricorrendo alle salviette umidificate (fondamentali), per dare una parvenza di donnina profumata. Ma la cosa bella è che alla fine tutti i viaggiatori sono più o meno della stessa filosofia e ci si vuole bene lo stesso.

Ma torniamo al tour. L’itinerario nel Salar de Uyuni, la più grande distesa di sale al mondo formatasi dal prosciugamento di un lago salato di epoca preistorica, inizia nel bianco abbagliante del deserto, tra isole di cactus, saline e cimiteri di treni. L’isla del pescado (in quechua Incahuasi) è un isolotto a forma di pesce cosparso di cactus. Il nostro primo pranzo al sacco, costituito da pane e tonno in scatola, è avvenuto qui….ed è stato una meraviglia.

Durante il tour del Salar si incontrano immense lagune dai colori meravigliosi, dove volano centinaia di fenicotteri che, dal mese di novembre, scelgono questo luogo per la riproduzione. Come dargli torto. All’orizzonte si scorgono vulcani e cime innevate, il paesaggio è sempre molto “wow”.
Dopo la distesa di sale, il deserto diventa più terroso e roccioso.
Il terzo giorno di viaggio, nel gelo dell’alba, abbiamo visitato i geyser e dei bagni termali all’aperto. Uno scenario alquanto surreale, lunare, dove al misticismo del luogo si aggiungevano le follie di turisti giapponesi che si buttavano nei vapori bollenti dei geyser. Poi alle 8 del mattino l’aria era già calda e soffocante, ma i finestrini della jeep erano rigorosamente chiusi per evitare di respirare sabbia e terra del deserto. Raggiunto il confine con il Cile, poi inizia il ritorno verso il punto di partenza.

Da un tour di questo tipo si torna stanchi, puzzolenti e infreddoliti….ma con la consapevolezza di aver visto uno dei luoghi più belli e particolari del mondo. Pare che il Salar sia pieno di litio, minerale che fa gola a tutti i boss del capitalismo. Per il momento questo paradiso è stato protetto da chi vorrebbe distruggerlo per accaparrarsi questa preziosa risorsa, ma chissà se e quanto sarà possibile preservarlo ancora.

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Viaggi hard-core. Direzione Uyuni.

Sicuramente i viaggi più hard-core (ovvero estremi) della mia vita li ho fatti in Bolivia. Ore e ore in autobus comodi e silenziosi come frullatori in azione, che attraversavano la notte del gelido altipiano andino.
Io e la mia compagna di avventure eravamo studentesse universitarie senza molti fondi economici, quindi non volevamo mai spendere quei centesimi di euro in più per viaggiare in pullman turistici, vagamente più invitanti. Perché mai? Noi, perfettamente integrate nel contesto boliviano, sceglievamo sempre i bus di linea da comuni cittadini boliviani. Tra di loro, tra l’altro, c’erano sempre donne con tre o quattro figli, le quali compravano solo un biglietto e poi disponevano la prole a dormire a terra lungo il corridoio tra i sedili. In barba alle norme di sicurezza. Più che un viaggio sembrava una prova di sopravvivenza.

Trasporti efficienti

Quando io e la mia amica non riuscivamo ad ottenere posti vicini, si sperava sempre che il nostro vicino di sedile non fosse troppo grosso, troppo odoroso o troppo rumoroso. Che poi è la stessa ansia che ti coglie in qualsiasi angolo di mondo, quando prendi l’aereo e speri di non avere seduto dietro un bambino urlante, o quando sei al cinema e preghi che non si sieda davanti a te una persona troppo alta. E poi succede.
Solo che in Bolivia c’era anche una discreta componente “splatter”.
Ora vi spiego perché.

Ogni volta che si lasciava La Paz, si attraversava una specie di “casello” in cui i militari facevano controlli. Proprio in quel punto, c’erano decine di chioschetti di cholitas che vendevano qualsiasi genere alimentare, facendolo passare direttamente attraverso i finestrini del bus: dalle comuni patatine e cola, a sacchetti di plastica contenenti brodo di pollo appena cucinato, oppure qualche succo che gli esperti consumatori boliviani succhiavano da una cannuccia che usciva dal sacchetto. Altro che consegna rapida dei fast food! Parola d’ordine efficienza!
Il viaggio quindi iniziava con una bella cena di riso, pollo e brodo on the road . Dopo essersi ingozzati come se non ci fosse un domani, i passeggeri proseguivano più serenamente… Fino a quando, tra le infinite curve, la gente iniziava a sentirsi male e a vomitare direttamente dai finestrini.

Toilette dell’altipiano andino

Un altro momento poco digeribile era quello del bagno. A metà percorso, nel cuore della notte, il bus si fermava e lasciava la possibilità ai viaggiatori erranti di fare i propri bisogni afuera. E quando dico afuera, intendo proprio all’aria aperta. Tutti scendevano dal pullman come assonnati zombi e, camminando lentamente, sparivano nel buio. Si sentivano allora solo rumori.

Tra questi viaggi hard-core verso direzioni meravigliose, c’è stato quello per il Salar de Uyuni, il deserto di sale più grande al mondo.

Tour al Salar de Uyuni

Il tragitto verso Uyuni, la cittadina da dove partono numerosi tour per il deserto, è stato abbastanza pittoresco ed è sicuramente rimasto nel mio cuore. Da La Paz ci sono volute circa 15 ore di movimentato viaggio notturno. A un certo punto della notte, l’autobus si è fermato. L’autista ha iniziato a gridare svegliando tutti i viaggiatori dormienti: “Fuoriiiiii!Fuoriiii tutti!” gridava.
Intontiti e infreddoliti, avvolti in coperte che venivano fornite per sopravvivere al gelo, siamo scesi tutti con aria perplessa. E fu allora che abbiamo scoperto che il gigantesco bus a due piani si era impantanato in una specie di fanghiglia simile alle sabbie mobili. “Y ahora, todos a empujar!”, ha ordinato autoritario l’autista. “E ora tutti a spingere!”. Decine di persone ancora intorpidite dal sonno, la gran parte costituita da turisti, hanno quindi messo insieme le forze e hanno iniziato a spingere l’autobus sbloccandolo dalla sua trappola terrosa.
Scene surreali, ma del tutto normali.

Tra la Bolivia e il Perù di itinerari in bus ne ho percorsi molti: faticosi, lunghi, scomodi. Ma una cosa è certa, ne è sempre valsa la pena. A parte che, se la si prende con filosofia, tutte le cose che sembrano strane, tipo trovarsi a viaggiare insieme a maiali o a galli da combattimento, diventano parte del divertimento. E’ un divertimento che i tour organizzati da agenzie turistiche quasi sicuramente non possono riproporre. Anche se a volte sono più faticosi, sono viaggi che aiutano a crescere e ad aprire la mente.

Partiamo quindi per un tour di tre giorni nella più grande distesa salata della Terra…il Salar de Uyuni!

CONTINUA…

THANKS…Alcune foto presenti in questo articolo sono state prese in prestito dalla mia compagna di viaggio Daniela.

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La Paz. Punto di partenza.

Ciao mamma, volevo dirti che parto per la Bolivia perché devo fare la tesi. Una delle cose peggiori, dopo “parto per la guerra”, che una madre ansiosa possa sentirsi dire dalla figlia che non hai mai superato i confini continentali per le vacanze. MA PERCHÉ! Perché studio antropologia e quindi me ne devo andare per capire il mondo.
In realtà avevo le idee abbastanza confuse su cosa avrei fatto e sul perché dovessi farlo proprio laggiù. Le direzioni casuali a volte sono le migliori. L’importante è farsi vedere sempre sicuri dai genitori.

A quel tempo a Sucre erano esplose delle rivolte indigene in seguito ad alcuni atti razzisti ed Evo Morales, che era ancora all’inizio della sua lunga carriera di Presidente, aveva appena espulso dal Paese l’ambasciatore degli Stati Uniti accusandolo di complotto. Anche i minatori erano abbastanza arrabbiati, ma poi ho capito che quello era normale. Partivo con un’altra ragazza, probabilmente sciroccata quanto me, con in mano l’indirizzo di una casa di La Paz segnalataci da un’altra studentessa antropologa conosciuta per caso a una festa. All’epoca non c’era facebook e simili, le persone si conoscevano così, parlando di viaggi e progetti.

Quella casa, Casa Giavarini, fu una delle più belle sorprese fatte nella mia vita. Lui, un cooperante italiano immigrato in Bolivia da oltre 30 anni. Lei, una leader indigena, fondatrice di diversi movimenti di rivendicazione. E poi i 5 figli, uno diverso dall’altro (dal discotecaro alla potenziale sciamana), cresciuti in una grande casa con le mura piene di murales, il patio che ogni tanto ospitava rituali alla Pachamama (la madre terra) e un viavai di ospiti continuo. Sonia, la domestica di origine indigena, apparecchiava la grande tavola per tutti, ma non c’erano orari e chi voleva mangiare si sedeva quando aveva voglia.

La Paz è stato il mio primo incontro con l’America Latina. Fu un po’ come un pugno nello stomaco, letteralmente, perché i 4000 metri di altitudine ti fanno sentire a metà strada tra un’influenza e una sbronza andata a male. Ogni passo è fatica, ogni pasto rimane con te più di 24 ore con l’intento di catapultarsi di nuovo fuori dal tuo corpo, magari, proprio all’angolo di una strada del centro mentre stai passeggiando. Non è di certo la meta per una vacanza relax di qualche giorno. E’ una città difficile che richiede lentezza, ma sicuramente un buon punto di partenza per esplorare la meravigliosa Bolivia.

La Paz, città variopinta e multiforme, è dominata dal caos. E’ una città viva, pulsante, un’anima combattente incastonata nella Bolivia andina. E’ un cuore indigeno, tra l’urbano e il rurale, cosparso di messaggi sincretici di ogni tipo; si vedono ovunque per strada… nei disegni, nei murales o negli adesivi dei minibus, dove Gesù, Che Guevara ed Evo Morales si trovavano spesso uniti in un comune messaggio salvifico. La Paz è capitale andina di un Paese a cui manca solo il mare.

La Paz è una distesa di case sparpagliate che scivolano lungo il pendio andino. Il suo cuore, il suo “sud”, si trova nella parte più alta. Lì i suoni, gli odori e i colori diventano più accesi. Un grande mercato si dirama nelle sue vie. Perdendosi per le sue strade si trovano stoffe tradizionali, souvenir per i turisti, ma anche amuleti, feti di lama e preparati da offrire a Pachamama. E poi ancora la frutta e la verdura, il formaggio, la carne e il pesce che pulsano al sole. La coca, foglia sacra e antidoto contro la fame e l’ossigeno rarefatto, è stata la mia salvezza per ossigenare il mio corpo e farlo abituare all’altitudine.

Protagoniste di questo paesaggio sono sicuramente le cholitas, le donne indigene urbanizzate, che con le trecce e la pollera (la gonna tradizionale) vendono per le strade qualsiasi tipo di oggetto, o siedono a terra mangiando zuppa calda. Le cebritas, ragazzi vestiti da zebra, zampettano sulle strisce pedonali cercando di aiutare il vigile a regolare il folle traffico cittadino. Rumore, clacson e forte puzza di smog.
Facile trovare anche il cocalero, che legge il futuro attraverso le foglie di coca; quando ci sono andata ho trovato una coda di donne come dal parrucchiere.

A La Paz la ricchezza e la povertà convivono senza mai scontrarsi. Nelle strade ci sono tanti mendicanti e bimbi lucida scarpe. Questi ultimi, come avrei appreso tempo dopo, sono bambini lavoratori organizzati in veri e propri movimenti di rivendicazione.
La Paz è una città dove bisogna fermarsi ad osservare, perché sembra che ogni persona porti con sé, segnata sul volto e sulle mani, la storia di questo Paese.

Para encontrarse, hay que tener el coraje de perderse. Ho letto questa frase scritta su un muro della città e da quel momento mi ha sempre accompagnata. La sensazione di smarrimento che ti assale quando si esplorano luoghi nuovi, magari culturalmente diversi dal nostro, è parte fondamentale del viaggio. Nell’esplorare, nel cercare di comprendere quello che ci circonda, nel perdersi, nel tentare di integrarsi e sentirsi parte di un luogo, risiede tutto il senso del mettersi in movimento.

CONTINUA…

THANKS…Alcune foto presenti in questo articolo sono state prese in prestito dalla mia compagna di viaggio Daniela e da Massimo.

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