Pedalare in Liberty! La ciclovia della Val Brembana

Che belle le ciclovie! Aprono le porte del turismo lento e sostenibile anche al cicloturista-schiappa; sono pensate per dare un’identità nuova ai territori e farli riscoprire da un altro punto di vista…ad un’altra velocità.

Avevo già parlato con entusiasmo di due famose piste ciclabili che uniscono il Friuli Venezia Giulia, la Slovenia e la Croazia.
Ci spostiamo adesso tra le montagne della Lombardia e più precisamente nella sua Val Brembana. Qui esiste una pista ciclopedonale che attraversa l’omonima valle in provincia di Bergamo, il cui percorso si snoda in parte lungo il sedime della ex ferrovia della Val Brembana, attraversando bellissime e fresche gallerie scavate nella roccia.

Come ho avuto già modo di imparare, se l’itinerario si sviluppa lungo la via di una ex linea ferroviaria significa che la pendenza è minima. Infatti, anche questa ciclovia, lunga 31 km, ha un dislivello di soli 200 metri circa.
Un altro aspetto positivo da non sottovalutare è che la vicinanza del fiume Brembo e la quota (si arriva a un massimo di 536 m. sul livello del mare) rendono questo percorso fattibile anche nella stagione più calda.

Ufficialmente, la pista ciclabile parte da Almè e arriva fino a Piazza Brembana, ma vi è un unico neo in questo tragitto così ben studiato. Arrivando al centro abitato di Zogno, infatti, si è costretti a percorrere un tratto di circa 1 km lungo la strada statale, che non è proprio il massimo. Per questo motivo, si può optare per una partenza posticipata (così come abbiamo fatto noi anche per motivi organizzativi del momento), imboccando la ciclovia direttamente da Zogno. Il fascino “ferroviario” della prima parte del percorso, da Almé a Zogno, non è però da sottovalutare per la ricca presenza di ponti e gallerie.


Il panorama che si incontra lungo la ciclopedonale della Val Brembana è davvero suggestivo, diventando man mano che si prosegue sempre più “montano”, e molto vario. Si pedala su asfalto, su una pista ben segnalata e in ottime condizioni, circondati dalla natura; lungo il percorso si toccano diverse località della valle, si incontrano antiche e graziose stazioni, si attraversano ponti romanici e refrigeranti gallerie scavate nella roccia e illuminate.

Ci sono altri due elementi che caratterizzano questa zona e aggiungono ancora più interesse all’itinerario: l’acqua e il Liberty.

L’elemento acqua ha dato la gloria economica a questa valle, sia per i benefici delle acque termali di San Pellegrino Terme, sia per quanto riguarda l’industria dell’imbottigliamento.
Dallo sviluppo economico dato dallo sfruttamento della fonte minerale, ne è derivato anche quello di tipo turistico; da qui la necessità di creare nuove strutture di soggiorno all’altezza dei gusti raffinati dei frequentatori dell’epoca.
E’ di inizio Novecento l’esplosione dell’architettura stile Liberty di San Pellegrino, che si era trasformato nel centro più importante della valle, nonché in un’ambita località di villeggiatura modaiola e all’avanguardia in cui dare sfoggio del proprio status sociale.

La memoria di questo passato glorioso si può ancora respirare ammirando gli edifici dell’epoca, che trasudano il fascino della Belle Époque pur nel loro attuale stato di decadenza.
Per questo, una volta arrivati in sella della vostra bicicletta, è assolutamente consigliata una sosta a San Pellegrino per ammirare i suoi meravigliosi esempi di architettura Liberty, tra cui lo stabilimento dei bagni sul viale delle Terme, la sala bibita col porticato, lo stabilimento di imbottigliamento dell’acqua minerale, il Casinò, il Municipio, alcune ville private e l’imponente e affascinante il Grand Hotel.

Anche negli altri centri che si attraversano seguendo la pista ciclopedonale ci sono tracce Liberty, come il chiosco della toilette di Zogno o le ex stazioni della ferrovia.

Ma la Val Brembana, in quanto comunità montana, è famosa anche per un altro elemento culturale importantissimo…il formaggio! Insieme alla sua vicina Val Taleggio, negli ultimi anni ha riscoperto i piaceri dell’attività casearia artigianale, che regala una vasta scelta di prodotti locali: il Formai de Mut D.O.P., il Taleggio D.O.P., il Branzi, gli Agrì di Valtorta e lo Strachitunt della Valtaleggio.

Tra una pedalata e l’altra è quindi possibile fare shopping di qualità nei negozietti della valle o nei mercati settimanali. Se proprio poi si sente il bisogno di reintegrare energie e carboidrati, si può fare una sosta in trattoria per degustare la tipica polenta taragna e i casoncelli.. la giusta ricompensa per il ciclista-schiappa.

Di seguito trovate la mappa e la traccia del percorso che abbiamo percorso, con partenza da Zogno, tappa pranzo al sacco al Lago del Bernigolo e variante finale fino a Branzi (per onorare il famoso formaggio). La traccia del percorso ufficiale, quello che da Almé arriva a piazza Brembana, invece la potete trovare tranquillamente esplorando il web.

CICLOVIA VAL BREMBANA (con variante)
PARTENZA: Zogno
ARRIVO: Branzi
KM: 40 km circa (solo andata)
DISLIVELLO: 800 m. circa A/R

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Camminando a testa in su: grotte e falesie del Finalese ligure

Al cospetto di imponenti pareti di roccia, ci sono tre tipi di persone: ci sono quelle che vanno verso l’alto, sfidando il senso di vertigine e la gravità, si appendono come lucertole e arrampicano; ci sono quelle invece attratte dalle viscere della terra, che si divertono a strisciare nei cunicoli, affrontando il buio e la claustrofobia con una torcia sulla fronte; e poi ci sono quelle come me, che restano ai loro piedi guardando verso l’alto e, con rispetto e venerazione, osservano le imprese degli altri.

Finalborgo è forse una delle poche città liguri dove si può girare vestiti alla buona o sporchi di fango senza essere fissati come dei rifiuti umani. La sua fama infatti è data, oltre dal fatto di essere un incantevole borgo medioevale, dall’essere considerata una sorta di “Capitale dell’outdoor”.
Il territorio circostante è ricco di sentieri percorsi da camminatori e ciclisti livello pro; inoltre le sue imponenti falesie attirano ogni anno centinaia di arrampicatori italiani e stranieri.
La particolarità dell’ambiente di questa zona è dovuta alla tipologia di pietra bianca, calcarea, delle pareti rocciose, che nascondono tra l’altro una grande quantità di grotte.

La mia personale impresa, che racconto in questo articolo, non ha niente a che vedere con la speleologia e il free climbing; volevo semplicemente esplorare la zona delle grotte del Finalese da umile camminatrice. L’obiettivo era quello di fare un percorso ad anello con tappe nelle grotte più degne di nota, ma lo dico con sincerità….questo giro è stato un gran casino!

Non avevo trovato molte informazioni su internet, né tracce molto precise (probabilmente perché tra pareti rocciose e grotte il segnale gps impazzisce). Con tutto il bene che voglio alla Liguria, posso affermare che la condizione dei sentieri che abbiamo percorso non era molto buona; spesso ci siamo trovati persi in una fitta boscaglia o ad arrampicarci su pendii rocciosi e scivolosi. La cosa peggiore è che la segnaletica è ridotta al minimo sindacale e in prossimità delle grotte non ci sono cartelli o indicazioni (in realtà il fatto di non mettere indicazioni precise sembra quasi fatto apposta per rendere quei luoghi frequentati solo da conoscitori fedeli, soprattutto gli arrampicatori). Quindi non solo abbiamo più volte sbagliato strada, ma abbiamo pure mancato alcune delle grotte che volevamo vedere. Poi, avendo perso parecchio tempo, abbiamo dovuto tagliare l’itinerario che avevamo pensato, perché il rischio era quello di trovarci nel bosco con il buio.

Comunque, visto che il tentativo è stato fatto, di seguito riporto il racconto di questa avventura escursionistica in territorio ostile ligure.

Abbiamo lasciato l’auto a Finalborgo (con incredibile fortuna abbiamo trovato un posto non a pagamento), che è quello che consiglio di fare se si vuole approfittarne per fare due passi anche nel caratteristico borgo. L’alternativa è quella di salire con l’auto a Perti Alta, dove si può lasciare abbastanza abusivamente lungo la strada in prossimità della Chiesa dai Cinque Campanili (Nostra Signore di Loreto), oppure in località Cianassi. Ovviamente a seconda di dove si parcheggia, il giro prenderà una direzione diversa.

Partendo da Finalborgo, si prosegue per l’itinerario dei Cinque Campanili su per una bella rampa che porta prima al Forte San Giovanni (visitabile gratuitamente), poi al Castel Gavone e in seguito, percorrendo una bella stradina circondata dagli ulivi, alla Chiesa di Sant’Eusebio. Dalla chiesa si prosegue su strada asfaltata, si passa davanti a una grotta chiamata Arma di Perti (il termine “arma” si traduce con grotta) e nei pressi della chiesa Nostra Signora di Loreto si gode di una vista splendida sulla valle fino al mare.

Da qui le opzioni sono due: la più semplice prevede di continuare su strada asfaltata fino alle case di Perti Alta, attraversare il torrente e da lì prendere un sentiero che si arrampica nel bosco verso pareti rocciose. Facendo così, ci si assicura di raggiungere in breve tempo le due grotte più spettacolari, quella dell’Edera e quella della Pollera, relativamente nascoste ma vicine.

Ovviamente noi abbiamo optato per la soluzione più complicata, volendo percorrere appunto un giro ad anello per vedere il maggior numero di antri e concludere l’escursione proprio con queste due grotte menzionate.
Non abbiamo quindi attraversato il torrente, ma abbiamo proseguito su asfalto fino ad un rudere di una vecchia chiesa. Lì vicino, sulla sinistra, parte un sentiero segnalato con un cartello che dice “Falesia del suonatore Jones” e che sale su ripido nella fitta boscaglia, dove è facilissimo perdersi perché ovviamente la segnaletica è assente. Infatti per un breve tratto anche noi abbiamo perso la traccia e ci siamo trovati a inerpicarci tra arbusti pungenti e fitta vegetazione, manco fossimo impegnati in un’esercitazione militare.

SE NON CI SI PERDE, si incontrano la Grotta del Mulo, la roccia della Tartaruga e la grotta Arma delle Anime. SE NON CI SI PERDE, si incrocia e si imbocca la Via del Purchin dalla quale, con una breve deviazione, si può raggiungere anche la croce di vetta. Percorrendo la via del Purchin si dovrebbe arrivare anche al Grottin del Bric della Croce, grotta con due accessi situata nei pressi dell’omonima falesia.

Purtroppo, non è così facile indovinare la retta via e può capitare di perdersi lungo questo tragitto che tra l’altro ha alcuni tratti esposti dove bisogna fare molta attenzione.

 

Concludendo la Via del Purchin, si arriva al parcheggio/area pic nic (dove si trova anche una fontanella) situato in località Cianassi.
Da qui abbiamo appreso la possibilità di tornare indietro per lo stesso sentiero di provenienza per poi raggiungere, attraverso un’altra deviazione, le grotte Arma della Rocca di Perti e la Grotta Superiore della Rocca di Perti, la quale si snoda su due livelli. Per questioni di tempo abbiamo dovuto rinunciare a questa visita e proseguire invece per il sentiero che, da Cianassi, conduce prima alla Grotta della Pollera e poi a quella dell’Edera.

Anche per trovare queste due famose grotte è stato un delirio poiché, a parte le indicazioni che si trovano all’area pic nic, poi bisogna affidarsi al gps, al sentimento e alla fortuna. Non sono mancati quindi i momenti di frustrazione e sconforto, con il sottofondo del vociare degli arrampicatori (spesso il nostro unico punto di riferimento) appesi qua e là sulle pareti di roccia e nascosti dalla fitta boscaglia .

Dopo aver nuovamente sbagliato il sentiero, siamo riusciti ad arrampicarci per l’impervio pendio fino alla grotta della Pollera, l’antro della quale lascia davvero senza fiato: infatti la cavità di ingresso è alta 15 metri e la parte visitabile è lunga un centinaio. Per addentrarsi nel cuore della montagna bisogna invece avere l’attrezzatura e il titolo per farlo (quello di speleologo preferibilmente). Sulla destra, dopo l’ingresso, ci si può calare addentrandosi in diversi cunicoli e cavità anguste, per circa 500 metri e 64 di profondità. Dev’essere davvero impressionante, ma a noi comuni mortali è concesso solo ammirare l’imponenza di questa enorme grotta da fuori.

Dopo la sosta alla Grotta della Pollera, non restava che cercare quella dell’Edera. Inutile dire che anche in questo caso la ricerca è stata abbastanza difficoltosa per l’assenza assoluta di segnaletica. La Grotta dell’Edera è davvero un luogo particolare; si tratta di un grande cilindro roccioso a cielo aperto, generato dal crollo della volta che ricopriva questa grande grotta.
E’ un luogo conosciuto per la sua valenza geologica ed è chiamata così perché l’edera ne ricopriva le pareti internamente ed esternamente.

Sembra che la grotta sia raggiungibile da tre diverse altezze, ma ci vuol tutto che noi abbiamo scoperto un ingresso, cioè quello inferiore. Da fuori non si può minimamente immaginare cosa nasconde il cuore della montagna. Si entra in un antro buio dove appunto non di vede niente…ma se ci si addentra più in profondità si scorge una corda che scende da un balzo di roccia. Non serve obbligatoriamente attrezzatura da arrampicata, ma bisogna essere un po’ ginnici e fare attenzione. Aiutandosi con la corda ci si tira su e si risale per circa 15 metri la grossa frana, al buio totale, per arrivare poi a uno stretto passaggio che permette di accedere alla base di una grande sala a cielo aperto. Si tratta di una vera e propria cattedrale di pietra, avvolta dal silenzio che serve agli arrampicatori esperti per riuscire nella loro ascesa. L’effetto wow è assicurato e consola dal nervosismo per la pessima segnaletica ligure.

Qui di seguito, vi mostro la mappa e la traccia del percorso, ma visti i numerosi errori di orientamento sconsiglio di seguirlo perché di certo si può studiare molto meglio.

Anello Grotte del Finalese
PUNTO DI PARTENZA e DI ARRIVO: Finalborgo
KM: 12 km circa
DISLIVELLO: circa 500 m. (ma percepiti anche di più)
DIFFICOLTA’: E
TRACCIATO: in alcune parti roccioso e sdrucciolevole, segnaletica quasi assente e alcuni punti esposti
PARTENZA ALTERNATIVA: Perti Alta (zona Chiesa Cinque Campanili) oppure località Cianassi

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Di falsari e pellegrini, un trekking a picco sul Mar Ligure

La Liguria non è solo estate, spiagge pietrose e strette, code sull’Aurelia e ristoratori imbruttiti. C’è tutto un territorio da scoprire che varia da un capo all’altro della regione. E’ un dedalo di percorsi da fare a piedi o in bici, a cavallo tra monti e mare.

Avevo già raccontato di uno dei trekking più particolari e panoramici della riviera ligure, ovvero quello che da Camogli porta all’abbazia di San Fruttuoso
Adesso spostiamoci nella provincia di Savona, la mia terra natia, che sto riscoprendo in veste nuova solo recentemente.

Indubbiamente, l’itinerario più conosciuto in questa zona è quello che collega due antichi borghi marinari, Varigotti e Noli. Le scogliere di Capo Noli infatti sono forse l’angolo più suggestivo e panoramico della provincia savonese.
I due abitati, prima della costruzione della moderna via Aurelia, erano collegati solo da una mulattiera che attraversa le ripide pareti del Malpasso e si addentra tra uliveti e la rigogliosa vegetazione mediterranea.

Questa mulattiera è ancora percorribile e regala agli amanti delle escursioni un itinerario sul mare con diversi scorci mozzafiato. Si può percorrere da Varigotti a Noli (o viceversa) attraverso il Sentiero del Pellegrino e la Passeggiata Dantesca, visitando la Grotta dei Falsari e approfittandone per perdersi, se non siete del luogo, tra i caruggi di questi due paesini che sue due vere e proprie perle della costa ligure.
Il percorso è lungo circa 5km, solo andata.

Se invece si vuole fare un giro ad anello, una soluzione può essere quella che descrivo in questo articolo, al fondo del quale trovate in breve i dati tecnici e qualche consiglio.

Si parte! A Varigotti il sentiero parte in Via Strada Vecchia, si percorre una scalinata sulla sinistra e si imbocca il Sentiero del Pellegrino (il nome è dovuto al fatto che lungo il sentiero si incontrano diverse chiesette antiche) che ci dà il benvenuto con una ripida salita.

In circa 15 minuti si incontra un bivio che porta alla Chiesa di San Lorenzo, abbazia benedettina del XIII secolo, che costituisce una piccola deviazione dal percorso principale (consiglio di farla a inizio percorso, quando si hanno ancora le energie).
Dopo la visita alla chiesetta, si prosegue sul percorso principale. Con orrore ci siamo inerpicati per gli ostili sentieri liguri, ricchi di rocce e radici, che ne fanno la patria di ciclisti con istinti suicidi.

Proseguendo sul Sentiero del Pellegrino, segnalato con una X rossa, si raggiunge il Mausoleo di Giuseppe Cerisola. Era uomo di mare nativo di Varigotti, fatto prigioniero dagli inglesi durante la seconda guerra mondiale e portato in Australia nei campi di lavoro. Il luogo è riconoscibile grazie muretto colorato e decorato a tema marinaresco. Al ritorno nella sua terra natia, dopo 30 anni, Cerisola creò quest’opera in memoria delle persone che aveva salvato in mare, tra cui una salvata dall’annegamento nel 1976 proprio a Varigotti.

Sul sentiero ciottoloso si scorge una scritta in inglese: “When the going gets tough,
the tough get going“, traducibile in italiano con l’espressione “Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare”. La citazione si abbina bene al tipo di tracciato che si incontra.

Il primo tratto di questo anello è infatti il più ripido e duro, da percorrere con scarpe adeguate e facendo molta attenzione, soprattutto in fase di discesa o se il terreno è bagnato.

Andando avanti verso Noli si arriva alla Torre delle Streghe, situata proprio sopra la popolare spiaggia del Malpasso, in estate invasa da miriade di turisti attratti dalla location suggestiva e dal mare color smeraldo. Suddetta torre fu costruita alla fine del 1500 per evitare gli sconfinamenti del territorio di Varigotti in quello di Noli; il suo nome fu dato per deridere le donne di Varigotti…una sorta di battuta maschilista in chiave medioevale.

Riprendendo il sentiero principale, poco dopo la torre, si arriva a un promontorio dal quale si può godere di un bellissimo panorama sulla falesia di Punta Crena, le colline e il mare. Poco più avanti c’è un altro punto panoramico e poi si supera il bivio per le Manie, tenendosi sulla destra. Stranamente è tutto ben segnalato.

Si procede dunque lungo la discesa (in zona Semaforo di Capo Noli) che conduce alla deviazione per visitare la spettacolare Grotta dei Falsari, antro a picco sul mare.
Apro una parentesi sul Semaforo di Capo Noli….Ho sempre pensato che questa zona si chiamasse così perché in prossimità del semaforo sull’Aurelia dove spesso ci sono lavori in corso per impedire che la parete rocciosa e la strada venga giù. In realtà con il termine “semaforo” si intende una specie di avamposto che in epoca napoleonica aveva lo scopo di controllare il traffico navale e dare l’allarme in caso di attacco della flotta inglese.

La tappa alla Grotta dei Falsari è assolutamente consigliata, in quanto si tratta del punto più particolare dell’itinerario. Qui però il sentiero scende ripido e si fa più impervio, richiedendo qualche dote ginnica. E’ comunque dotato di corde per evitare di scivolare. Un cartello all’inizio della deviazione suggerisce di non indossare tacchi. In Liguria c’è una certa tendenza a intraprendere cammini in infradito, solo perché la vicinanza del mare fa pensare che sia tutto più facile.

La Grotta dei Falsari, detta anche Grotta dei Briganti, è chiamata così perché si narra che fosse sede di traffici di contrabbandieri che custodivano lì la propria merce. La grotta si presenta con un’apertura a picco sul mare, attraverso la quale si può entrare per ammirare il panorama e, se non c’è molto traffico umano, fermarsi per una pausa pranzo da “ciao poveri”. All’interno della grotta si possono notare dei muretti a secco; pare che fossero usati come punto di controllo dai soldati durante la guerra.

Un’alternativa per una pausa pranzo panoramica si trova poco distante della grotta, sulla stessa via che si percorre per arrivarci.

Risalendo sul sentiero principale e proseguendo verso Noli si raggiungono i resti, inghiottiti dal bosco, dell’eremo del Capitano D’Albertis, un viaggiatore (ma anche navigatore, scrittore, etnologo e filantropo) di fine ‘800, proprietario dell’omonimo Castello (ora museo) a Genova e il rudere della Chiesa di Santa Margherita.

A questo punto si deve decidere se proseguire sul sentiero della Passeggiata Dantesca (il nome si riferisce al passaggio di Dante attraverso il territorio della Repubblica marinara di Noli, menzionata dal poeta nel canto IV del Purgatorio) e raggiungere Noli, oppure chiudere il giro con un anello.

Vista la mia scarsa memoria e senso dell’ orientamento, non so dare una descrizione molto precisa di questa seconda parte di itinerario (consiglio quindi di scaricare la traccia del percorso). Di certo si prosegue lungo la Passeggiata Dantesca verso Noli, godendo tra l’altro del bel paesaggio sul golfo e il castello. A un certo punto, dopo aver passato i resti della chiesa di San Lazzaro, sulla sinistra si scorge un cartello che indica il “Sentiero Amico” che porta a San Michele. Ci si accorge subito che il sentiero tanto amico non è, perché sale su bello dritto senza pietà e sembra non finire mai! Siamo nel mezzo del bosco, circondati dalla folta vegetazione mediterranea. Sicuramente il percorso sul mare è più panoramico, ma a me piace chiudere i giri ad anello per scoprire anche altri sentieri.

Quando il “sentiero amico per modo di dire” finalmente incontra un bivio, bisogna proseguire verso sinistra (direzione costa), imboccare poi quella che si chiama Strada del Semaforo di Capo Noli e a un certo punto svoltare e riscendere verso il mare, per riprendere il sentiero che si era percorso all’andata e che quindi è facilmente riconoscibile. Essendo in direzione contraria, tutto quel fantastico rock garden incontrato in salita all’andata, si trasforma in una ripida discesa abbastanza “scalinata” e scivolosa.

Tornati su Varigotti, se le caviglie e le ginocchia ancora reggono, si può fare ancora una tappa sul promontorio di Punta Crena, dal quale si gode di una vista stupenda, oppure andare a bagnare i piedi in mare…Perché un lato positivo del camminare in Liguria è che spesso l’escursione finisce in spiaggia.

Anello Sentiero del Pellegrino e Passeggiata Dantesca
KM: circa 11km a/r
DISLIVELLO: circa 750 m.
DIFFICOLTA’: E
TRACCIATO: in alcune parti roccioso e sdrucciolevole
PUNTO DI PARTENZA e DI ARRIVO: Varigotti, Strada Vecchia
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CONSIGLI UTILI:
– Periodo consigliato: sconsigliato nella stagione estiva a causa dell’esposizione al sole;
– Portare acqua e cibo, non ci sono punti di ristoro o fontane;
– Indossare scarpe da trekking (no sneakers, infradito e tacchi);
– Parcheggio comodo e gratuito sia a Varigotti che a Noli, nella stagione invernale (in estate si paga);
-Punto di partenza raggiungibile anche con i mezzi (la linea di autobus che sull’Aurelia ferma sia a Noli che a Varigotti).

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Tra le Gole di San Martino, la piccola Petra d’Abruzzo

L’Abruzzo è uno scrigno di tesori nascosti, da scoprire a piccoli passi. La varietà di itinerari in grado di offrire è immensa ed è impossibile esaurirla in un solo breve viaggio.

Dopo aver scoperto gli eremi di San Bartolomeo in Legio e di Santo Spirito, è la volta di un altro luogo unico nascosto in un cuore di pietra. Qualcuno ha chiamato questo luogo “la piccola Petra d’Abruzzo”: parlo del monastero di San Martino e delle omonime gole, situate all’interno del Parco Nazionale della Majella, nei pressi della cittadina di Fara.

Le gole e il monastero di San Martino sono due dei novantacinque geositi identificati in tutto il territorio del Parco della Majella, nominato recentemente Geoparco UNESCO, poiché custode di particolarità geologiche, della biodiversità, della storia dell’uomo e della sua cultura.

Questo sito unico è una di queste meraviglie. Raggiungerlo è molto semplice: bisogna prendere il sentiero H1 (bandierine bianche e rosse) dal parcheggio in prossimità delle Gole, che è situato nella parte bassa della città di Fara ed è ben segnalato dai cartelli turistici. Qui è anche possibile noleggiare a 2 euro un caschetto che è altamente consigliato perché dall’alto potrebbero cadere dei sassi. Mentre stavamo riflettendo sull’investimento, la ragazza del chioschetto turistico ci ha raccontato che purtroppo qualche anno fa una signora è morta proprio perché colpita da un masso (ho controllato, la notizia purtroppo è vera). Anche memori dell’esperienza sul Gran Sasso, un secondo dopo avevamo il caschetto sulla testa.

Il percorso si addentra subito tra le imponenti gole; nella prima parte il passaggio è stretto e le pareti rocciose sembrano quasi toccarsi. Anche questa sembra una similitudine con il famoso sito archeologico giordano. Poi poco a poco il sentiero si apre sulla vallata e, guardando in alto, non si può non restare colpiti dalla maestosità di questi massicci.
Secondo la leggenda, le gole furono aperte da San Martino con la forza delle braccia per consentire alla popolazione di accedere più velocemente agli alti pascoli della Majella. In realtà il merito di quest’opera è l’acqua, che dalla glaciazioni in poi ha eroso incessantemente la roccia.

Dopo pochi metri di cammino si arriva al monastero, incorniciato nella roccia, portato alla luce da scavi recenti. Di questo suggestivo luogo si conosce ben poco. Probabilmente la struttura di cui si possono vedere i resti sorse su un insediamento eremitico, costituito inizialmente da una cella scavata nella roccia. La sua presenza è stata attestata per la prima volta nell’829 e tra il IX e il XVIII secolo ha subito diversi rifacimenti. Noi abbiamo potuto ammirare i resti del monastero al di fuori del cancello chiuso, che si affaccia verso un cortile interno delimitato da un portico a tre arcate, sul lato nord del quale si trova un campanile a vela. Il luogo dove è collocato questo edificio è pazzesco, unico, sicuramente in grado di emozionare.

Dopo aver raggiunto l’eremo le opzioni sono due. I più allenati e temerari possono decidere di proseguire il percorso a piedi per inoltrarsi in un trekking impegnativo di 9 ore che conduce fino alla vetta del Monte Amaro, a quota 2793 metri. Oppure si può tornare indietro e, posato il caschetto, raggiungere a piedi le sorgenti del fiume Verde, poco distanti, dove si può riposare e prendere un po’ di fresco. Per questioni di tempo e scarsa preparazione atletica, noi abbiamo optato per questa seconda opzione.

Il nostro viaggio tra le montagne, i borghi e i parchi dell’Abruzzo si è concluso…ma solo per il momento! Inaspettatamente è stato un viaggio, breve ma intenso, che ci ha lasciati con il desiderio di tornare al più presto in questo territorio così ricco.

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Un rifugio nella roccia, l’Abruzzo degli Eremi

Dopo esserci immersi nella natura selvaggia della Valle dell’Orfento, eccezionalmente verde e rigogliosa in confronto agli aridi valloni della Majella, il nostro viaggio è proseguito alla ricerca di altrettanto unici angoli di pace e silenzio. Sto parlando degli eremi, che in Abruzzo sono molto numerosi e che sono la dimostrazione della capacità dell’uomo di incastonarsi, letteralmente parlando, nella natura più incontaminata.
Visitare un eremo in questa regione è sicuramente un’esperienza in grado di coinvolgere emotivamente, al di là delle proprie credenze religiose. Io per esempio sono abbastanza carente di “vocazione spirituale”, ma in un precedente viaggio alla scoperta delle Marche, ero rimasta meravigliata nello scoprire il famoso Tempio di Valadier e l’eremo di Santa Maria Infra Saxa. La figura dell’eremita mi ha sempre fatto simpatia perché se potessi, probabilmente, anche io dedicherei molto più tempo all’eremitaggio.

Ma bando alla ciance, andiamo alla scoperta di questi due particolari eremi scavati nella roccia.

Eremo San Bartolomeo in Legio. L’eremo di San Bartolomeo è uno degli eremi celestiniani della Majella, situato a mezzacosta sul vallone di S. Spirito e costruito sotto uno spettacolare tetto di roccia. Per raggiungerlo a piedi ci sono due possibilità: percorrere il sentiero che scendendo dalla Valle Giumentina permette di scorgere, mimetizzato nella roccia, l’eremo sul versante opposto; oppure scendere da Roccamorice, per un sentiero che conduce ad una galleria scavata nella pietra che si apre sulla balconata antistante l’oratorio.
Noi abbiamo scelto la seconda opzione e, dopo aver lasciato la macchina abbastanza abusivamente sulla strada principale (vi è anche la possibilità di usare un parcheggio privato di un signore che ha messo su il business), ci siamo messi in cammino sotto un sole ancora troppo cocente (erano le 17, ma è stata un’estate ribollente). Io avevo i piedi gonfi per la precedente camminata nella Valle dell’Orfento e ho avuto la geniale idea di utilizzare i miei amati sandali Birkenstock. Si può fare, ma meglio avere scarpe adatte alla camminata perché il terreno è abbastanza dismesso e scivoloso, soprattutto all’andata in discesa. Sole a parte, la strada si percorre in circa 40 minuti e il dislivello è minimo (circa 150 m. di dislivello positivo). L’effetto wow quando si arriva è assicurato. Si scende infatti attraverso una scala scavata nella roccia e….ci si ritrova sotto la parete rocciosa che come un’onda di pietra racchiude la balconata e la chiesetta.


Qualche dato storico: l’eremo di San Bartolomeo è sorto come dipendenza della vicina Badia di Santo Spirito e fu edificato dopo il 1250 dall’eremita Pietro Angelerio dal Morrone, futuro papa con il nome di Celestino V, sulle rovine di una precedente costruzione. Il Santo vi si stabilì insieme ad alcune seguaci intorno al 1274 e vi rimase per almeno due anni.

Sulla facciata si possono scorgere tracce di un antico affresco raffigurante un ostensorio e due riquadri con Cristo e una Madonna con Bambino. Internamente vi è una piccola sorgente d’acqua che, tramite un canaletto, scorre fuori della chiesa; l’acqua, ritenuta santa, una volta mescolata con l’acqua della sorgente sottostante l’eremo viene raccolta nell’acquasantiera. L’eremo è dedicato a San Bartolomeo e nella nicchia dell’altare è collocata una statua del santo, raffigurato con un coltello e la propria pelle portata a spalla, per rappresentare il martirio al quale era andato incontro (lo scorticamento).

L’accesso alla struttura è libero, senza orari di visita da rispettare. Per questo motivo consiglio di dare priorità all’altro famoso eremo che si trova a poca distanza, quello di Santo Spirito, che invece a un certo punto chiude l’accesso.

Eremo Santo Spirito a Majella. L’eremo di Santo Spirito è senza dubbio il più famoso della Majella. Dista pochi km dall’Eremo di San Bartolomeo ed è visitabile (con o senza guida turistica) in determinati giorni ed orari che vi consiglio di consultare per evitare di fare il nostro errore….cioè arrivare proprio in orario di chiusura. Con un’organizzazione meno improvvisata avremmo potuto recarci prima qui e in seguito all’eremo di San Bartolomeo. Invece con immensa delusione non siamo potuti entrare e ci siamo dovuti accontentare di ammirare da fuori questa incredibile struttura incastonata nella roccia.

Pare che questo eremo risalga a prima dell’anno 1.000 e nel corso del tempo abbia subito diverse trasformazioni. Attualmente sono presenti la chiesa, la sagrestia ed un’ala abitativa distribuita su due piani, composta dalla foresteria e dalle cellette. All’interno si trovano diverse opere di grande valore, come la tela della Madonna e la Discesa dello Spirito Santo nel Cenacolo, una statua lignea di Cristo, il busto di papa Celestino V e due tele ottocentesche raffiguranti San Giuseppe e Sant’Elena. La parte bassa della chiesa è scavata della roccia e rappresenta il nucleo originario dell’eremo celestiniano.

L’eremo di Santo Spirito è raggiungibile in macchina e dispone di un parcheggio a pochi metri dall’ingresso. I camminatori potrebbero scegliere di raggiungerlo a piedi attraverso un ripido sentiero che parte dal paese di Roccamorice.

Tappa fuoriprogramma al Blockhaus. Siccome avevamo ancora energie, dopo l‘escursione nella Valle dell’Orfento e le visite agli eremi appena menzionati (una specie di tour de force fatto in un’unica giornata, lo so), ci siamo diretti in auto sulla cima del monte Blockhaus, a 2.143 m. di altitudine. La particolarità del nome deriva dal termine tedesco “block-haus”, il quale indica un tipo particolare di costruzione militare. Siccome nel 1863 fu costruito una sorta di fortino per combattere i briganti che si opponevano all’unificazione, fu attribuito quel nome alla cima usando appunto la lingua tedesca, in ricordo della dominazioni asburgica in Abruzzo.

Dal Monte Blockhaus

Storia a parte, questa è una tappa che consiglio assolutamente di fare perché, se il meteo è buono, da lassù la vista spazia dal Conero nelle Marche ai confini della Puglia…un panorama davvero incredibile e non riproducibile in una semplice fotografia!

Il viaggio alla scoperta dell’Abruzzo degli eremi non è finito…nella prossima tappa vi poterò nella piccola Petra degli Appennini!

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Perdersi nella Valle dell’Orfento, l’anima verde della Majella

Dopo aver esplorato alcuni dei luoghi più belli del Parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga (precisamente Santo Stefano di Sessanio, Rocca Calascio, Campo Imperatore e il massiccio del Gran Sasso) ci siamo spostati verso un altro Parco abruzzese, quello della Majella. In Abruzzo infatti c’è l’imbarazzo della scelta per chi è alla ricerca di pace e natura incontaminata. Questa regione ha investito moltissimo per valorizzare e prendersi cura del suo polmone verde.

La Majella è il secondo massiccio montuoso più alto dopo il Gran Sasso e il Parco offre una miriade di itinerari diversi tra i quali scegliere; per scoprire tutto non basta certo una breve vacanza come è stata la nostra. Bisogna avere il coraggio di selezionare e scegliere in base agli interessi, alla stagione in cui si viaggia e al tempo a disposizione.

La nostra visita in Majella è stata quindi dedicata alla verdeggiante Valle dell’Orfento, con delle brevi tappe in altri luoghi molto particolari di cui vi parlerò nei prossimi articoli.

La Valle dell’Orfento rappresenta l’unico canyon della Majella che possiede un corso d’acqua perenne (visti i tempi, si spera) grazie al quale la natura e la biodiversità esplodono rigogliose; questo la rende una meta adatta ad escursioni a piedi anche nella stagione più calda. La vegetazione e la vicinanza del torrente, infatti, rendono tutto più fresco. Questa valle, riserva naturale dal 1971, è situata nel comune di Caramaico Terme, nella parte nord occidentale del Parco nazionale della Majella. Arrivando in questo grazioso paese è facile trovare le indicazioni che portano al Centro Visita dal quale partono i principali sentieri.

Ci sono diverse opzioni, di difficoltà e durata varie, tra i quali scegliere. Per questioni di tempo noi abbiamo optato per l’anello del Ponte del Vallone, un itinerario di livello intermedio, di 8km percorribili in circa 3 ore, con solamente 180 m. di dislivello (dopo il Corno Grande non ne volevo più sapere di fare fatica).
Questo itinerario si caratterizza per essere dapprima molto panoramico, poiché passa sui costoni rocciosi della valle, per poi inoltrarsi nella rigogliosa vegetazione nei pressi del torrente fino ad entrare nella parte più profonda della gola.

Il sentiero da imboccare dal Centro Visite è il B2, ma una volta arrivati al primo ponte bisogna svoltare prendendo il sentiero S. Distratti dalla bellezza dei luoghi noi abbiamo continuato sul B2, sbagliando quindi strada e ritrovandoci senza saperlo sull’itinerario da 19km.

Per fortuna a un certo punto la strada era interrotta e quindi ci è venuto un mezzo dubbio; un signore del parco, impegnato a pulire i sentieri dalle erbacce, ci ha aiutati a orientarci verso la direzione giusta. Non ci è dispiaciuto fare quel pezzo aggiuntivo, che ci ha permesso di vedere una parte di bosco molto bella e delle grandi gole, levigate in modo molto particolare, dalle acque del fiume.
L’unica scocciatura è stata il non essere attrezzati per rimanere a spasso tante ore; non avevamo molta acqua e neanche cibo per pranzare adeguatamente (avevamo già fatto fuori tutta la frutta e gli snack). Questo ha reso il ritorno un po’ più difficoltoso, perché faceva caldo e avevamo fame. Quando si parte per un’escursione è sempre bene portare molta acqua e cibo, anche se si pensa di stare via per poco tempo, perché anche in una zona molto frequentata e ben segnalata potrebbe accadere qualche imprevisto…soprattutto se avete la testa tra le nuvole come la sottoscritta!

Comunque alla fine abbiamo concluso il nostro percorso, anche se facendo una variante non prevista. Dopo un pranzo davvero molto turistico (non siamo riusciti a trovare un bar che ci facesse un toast o una panetteria aperta) nell’unico bar aperto di Caramaico Terme, abbiamo raccolto le forze e ci siamo diretti alla scoperta di alcuni spettacolari eremi incastonati nella roccia.

VALLE DELL’ORFENTO- PERCORSO AD ANELLO DEL PONTE DEL VALLONE
con variante su percorso ufficiale
KM: 10 Km circa
DISLIVELLO: +300 m
DIFFICOLTA’: E
PUNTO DI PARTENZA e DI ARRIVO: Caramaico Terme
PERIODO ESCURSIONE: luglio 22
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Sul Corno Grande del Gran Sasso, il cuore di pietra dell’Abruzzo

Non so cosa porti l’uomo a cercare di raggiungere le vette. Forse è l’idea di avvicinarsi al divino, fatto che spiega la presenza di croci e statue della Madonna sulle cime principali. Oppure è il bisogno di superare un limite, mettersi alla prova e, dopo aver fatto fatica nella salita, sentire una sorta di sollievo e sensazione di potenza e libertà.
Quel che è evidente è che negli ultimi anni sono sempre di più le persone che si sono avvicinate all’escursionismo, hiking, trekking o come lo si vuol chiamare.
Tutto molto bello, a parte il fatto che tali croci e Madonnine siano diventati più che altro sfondi da selfie per Instagram e spesso sono talmente affollati da scacciare la sensazione di pace.

Io ancora non so come sia possibile per me aver raggiunto la vetta del Corno Grande del massiccio del Gran Sasso. Nei giorni precedenti questo enorme pezzo di roccia, buttato lì nel mezzo dell‘immenso Campo Imperatore, aveva fatto da sfondo al nostro viaggio alla scoperta dell’Abruzzo. Il nome che gli è stato dato non è un caso, sembra proprio un grande masso, pura pietra spigolosa, che ci osservava indifferente dall’alto dei suoi 2.912 metri.

Quando siamo partiti a piedi da Campo Imperatore non sapevamo che fine avremmo fatto. Ci siamo svegliati all’alba per tentare di sfuggire al sole impietoso dell’estate 2022 (e già così mi sentivo un’eroina) e come primo e umile obiettivo c’eravamo posti quello di raggiungere il Rifugio Duca degli Abruzzi, cosa che abbiamo fatto abbastanza agilmente. Questo percorso infatti è adatto davvero a tutti, trattandosi di un sentiero non difficile (T), con un dislivello di 260m e percorribile in circa 40 minuti.
Raggiunta la prima meta ci siamo guardati intorno, iniziando ad assaporare la bellezza del paesaggio che questa montagna avrebbe saputo regalarci.

Così abbiamo proseguito, seguendo un cartello che indicava la direzione per raggiungere il Corno Grande attraverso quella che è chiamata la via normale (c’è anche la direttissima, che si percorre in arrampicata) e che indicava in maniera ottimistica due ore di tempo di percorrenza.

In realtà le ore di percorrenza si sono moltiplicate: un po’ perché i luoghi e i panorami sono talmente belli che è impossibile non fermarsi ad ammirarli, un po’ perché dopo il primo tratto su un sentiero semplice, circondati da erbetta verde, trallallà trallallero, inizia la parte un pochino più impegnativa, fatta di pietre, ghiaia scivolosa, punti “scalinati” in cui i glutei implorano pietà.

Mentre salivamo con fatica cercando di non romperci le caviglie, dei pazzi furiosi scendevano correndo emettendo versi da animali rabbiosi. Stavano partecipando a una gara di corsa in montagna e solo vederli mi faceva venire male alle giunture. Avrei voluto fermarli, gridargli: “Ma cosa state facendo??”, ma come saette volavano giù dal pendio.

Quel giorno c’era tantissima gente a camminare e molti, così alla vista, sembravano escursionisti alquanto improvvisati. Oltre all’attrazione magnetica della vetta, sicuramente vedere così tanta gente in cammino ci ha fatto sottovalutate l’impresa e ci ha dato coraggio per proseguire, anche quando una bella parete di ghiaia e roccia ci si è stagliata davanti annunciando, dopo più di due ore di cammino, un altro 400 metri di dislivello.

L’ultimo tratto è il più complicato. Si passa per un canalone e bisogna far leva su gambe e braccia per tirarsi su. Ogni tanto dall’alto potrebbe cadere qualche pietra e, come è successo a noi, potreste incontrare macchie di sangue di chi si è fatto male precedentemente. Questo sentiero è segnalato (ma non sui cartelli in loco) come EE, ma senza dubbio avere con sé un caschetto sarebbe una cosa molto furba.

Più volte ci siamo chiesti se fosse il caso, probabilmente il nostro cervello ci ha anche risposto di no, non essendo escursionisti esperti e forse neanche giustamente attrezzati con caschetto. Ma alla fine siamo andati avanti e ci è andata bene, ma questo percorso non è assolutamente da sottovalutare…è faticoso e potrebbe essere pericoloso. Sicuramente non è adatto a camminatori improvvisati e a chi soffre di vertigini.

Dopo la salitona rocciosa nel canalone, si arriva quasi in vetta. Da qui già si può scorgere, dall’altro lato della montagna, quel che resta del ghiacciaio del Calderone, unico ghiacciaio dell’Appennino e anche quello più a sud d’ Europa. Ciò che ne restava, in questa calda estate 2022, è davvero poco. Per arrivare alla fatidica croce dei selfie, bisogna farsi coraggio e proseguire lungo una parte in cresta. Il panorama da lassù è davvero incredibile e spazia su Campo Imperatore, sulle cime dell’Appennino centrale e anche, se siete fortunati con il meteo, sul mare.
Qui il senso di vertigine si mescola con l’emozione di un’immensità che lascia senza fiato e ti fa sentire come un piccolo sputo nell’universo.

Poi la sensazione mistica deve lasciare il posto alla discesa infernale, durante la quale bisogna fare ancora più attenzione che all’andata a causa del terreno roccioso, pietroso e scivoloso.
Durante gli ultimi km di percorso, una pietra è caduta dall’alto e facendo un botto tremendo si è scontrata con una roccia che l’ha fatta rimbalzare e schivare la mia testa (per questo dico che sarebbe meglio il caschetto). Poco dopo è scoppiato un improvviso temporale, ma fortunatamente noi eravamo vicini all’arrivo…è stato automatico invece preoccuparsi per quelli che, innocentemente, stavano tentando la salita a orario già tardo.

Bagnati fradici, stanchi morti e adrenalinici, ci siamo preparati all’ultima notte nel bellissimo borgo di Santo Stefano di Sessanio per poi ripartire in direzione Majella!

CORNO GRANDE GRAN SASSO
passando per Rifugio Duca degli Abruzzi
KM: 11 Km circa
DISLIVELLO: + 900 circa
DIFFICOLTA’: via normale, EE
PUNTO DI PARTENZA e DI ARRIVO: Campo Imperatore, Osservatorio Astronomico
PERIODO ESCURSIONE: luglio 22
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Lo chiamavano Campo Imperatore

Nei dintorni dell’incantevole borgo di Santo Stefano di Sessanio, del quale ho già raccontato la romantica storia di rinascita, si trovano altrettanti luoghi straordinari di cui il ricordo per me resterà indelebile. Oltre Rocca Calascio e il suo tramonto, un altro luogo sicuramente in grado di emozionare è Campo Imperatore, che fa da tappeto al grande re Corno Grande del Gran Sasso, la cima più alta degli Appennini. Ho decine di foto di Campo Imperatore, ma nessuna è in grado di rendere la sua bellezza.

Ci troviamo all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga e questo altipiano, con i suoi 18km di lunghezza, 8km di larghezza e un’altitudine che varia tra i 1.460 metri ai 2.138 (coprendo un’area di circa 75 chilometri quadrati), è il più esteso degli Appennini.

Campo Imperatore fa contenti tutti: camminatori a caccia di sentieri, motociclisti che inseguono emozioni, ciclisti che maledicono motocilisti, automobilisti che bramano strade da sogno e camperisti in cerca di silenzio e di cieli stellati. Sì, perché qui la presenza dell’uomo sembra quasi non esserci; a parte qualche fattoria con bovini e cavalli, le uniche forme di vita sono i visitatori di passaggio e la natura.

Si potrebbero passare ore percorrendo le strade semideserte di Campo Imperatore, osservando la sua immensità, le sue sfumature e le ombre delle nuvole sui prati. Questo luogo ricorda a tratti il Far West e a tratti il Tibet. Non a caso è stato scelto come location per girare famosi film, come ad esempio quelli della serie “Lo chiamavano Trinità” (c’è anche un cartello che indica i luoghi delle scene più famose, dove i “pellegrini” degli spaghetti western vanno a scattarsi la foto di rito). Non a caso è chiamato Piccolo Tibet, perché lo ricorda, soprattutto se visto dall’alto.

Qui si trova, a 2.138 metri di altitudine, l’Osservatorio Astronomico d’Abruzzo, fondato nel 1.965 e ancora utilizzato; è il più alto d’Italia e l’unico dotato di telescopio a infrarossi. Ci sarebbe piaciuto visitarlo, ma è aperto solo in determinati giorni e orari. Si raggiunge con la funivia o, nella bella stagione, in macchina (l’ingresso all’area e al parcheggio, che è anche il punto di partenza per diverse escursioni sul Gran Sasso, costa 5 euro per l’intero giorno. Dei gentili omini sporgono il biglietto sulla strada).

Poco distante dall’Osservatorio c’è il famoso Albergo Campo Imperatore, dove venne rinchiuso Mussolini (prima di essere liberato da una squadra di paracadutisti), precisamente nella stanza 220 (che ha mantenuto gli arredi dell’epoca ed è visitabile come museo).

Un’altra tappa culturale che bisogna assolutamente fare è quella ai famosi ristori Mucciante e Giuliani, situati a poca distanza uno dall’altro; qui si può comprare la carne per poi grigliarla all’esterno su barbecue già accesi e tenuti in vita da personale apposito. Si tratta davvero di una soluzione comoda e goduriosa, che lascia spazio anche alla socializzazione tra diversi tipi di avventurieri.

Da Campo Imperatore partono diversi sentieri, di lunghezza e difficoltà differenti, che conducono o avvicinano al maestoso Corno Grande.
Potevo rinunciare a questa esperienza di trekking sull’Appenino? Seguitemi per scoprire la mia avventura targata “montagna schiappa” sul Corno Grande del Gran Sasso! Per quanto mi riguarda, un’impresa epica e irripetibile!

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Rocca Calascio, a piedi verso il castello più alto d’Abruzzo

Chi mi segue sa che quando viaggio non conosco riposo, saltello da una parte all’altra per conoscere il più possibile, ma senza dimenticare il lato “tarallucci e vino” della vita. Oggi vi porto virtualmente in un luogo magico, che nella bella stagione si presta come location ideale per consumare un aperitivo “al sacco”, open air, immersi tra natura, storia e avvolti da un tramonto che lascia senza parole. Quindi indossate un paio di scarpe comode, mettete nello zaino qualche prodotto tipico locale e si parte!

A poca distanza da Santo Stefano di Sessanio, si trova un altro incantevole borgo medioevale, Calascio. Abbandonato alla fine della seconda guerra mondiale, riprende vita nel periodo estivo e nei weekend grazie ai tanti localini turistici e ai mercatini.
I visitatori transitano da qui per andare a visitare la famosa Rocca Calascio, che con i suoi 1.460 m. di altitudine è uno dei castelli più alti d’Italia. Dall’alto domina sul parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, del quale fa parte, regalando un panorama assolutamente mozzafiato soprattutto al calar del sole.
In questo luogo unico e suggestivo sono stati girati diversi film, tra i quali i più famosi sono “Il nome della rosa” e “Ladyhawke”.

Ecco qualche dato storico. Rocca Calascio apparteneva all’antica baronia di Carapelle, un dominio feudale del XIII secolo (di cui faceva parte anche Santo Stefano di Sessanio). Il borgo di Calascio nacque perché le modeste dimensioni del castello non consentivano di ospitare molte persone, le quali quindi si “trasferirono” alle sue pendici vivendo comunque all’interno delle mura che proteggevano la rocca.
Anche qui, come a Santo Stefano di Sessanio, è la pietra la vera regina. Passeggiando per i viottoli si percepisce forte il contrasto tra cura e decadenza, passato silenzioso e presente pieno di vita.

Per arrivare alla Rocca ci sono diverse opzioni: o si ha la fortuna di trovare posto per l’auto nel piccolo parcheggio alle porte del borgo di Calascio (nel paese le automobili non possono entrare), oppure si lascia la macchina lungo la strada che si inerpica sul pendio. Noi abbiamo deciso di lasciarla a valle, nei pressi del centro abitato moderno di Calascio, e di procedere a piedi lungo il sentiero sterrato che attraversa anche i diversi tornanti della strada asfaltata. Si tratta di una camminata semplice, che dura circa 40 minuti e che è consigliabile fare, soprattutto in estate, nelle ore meno calde perché è quasi totalmente esposta al sole. Nel box al fondo dell’articolo trovate l’itinerario e la traccia da scaricare.

Per i camminatori più arditi, esiste anche un anello da fare a piedi che connette Santo Stefano di Sessanio, Calascio e Castelvecchio Calvisio. E’ un sentiero tecnicamente semplice, percorribile in 3 ore e mezza e con 590 m. di dislivello, ma non è consigliabile in estate per via del caldo.

La prima cosa che si scorge arrivando in cima è la Chiesa della Madonna della Pietà, a pianta ottagonale, risalente al XVI e XVII secolo. Poco più su si trova, aggrappato a uno sperone di roccia, il Castello di Rocca Calascio. La sua funzione ovviamente era quella di osservazione a scopo difensivo, ma faceva anche parte di un sistema di comunicazione tra castelli, per mezzo di torce o specchi, che pare giungesse fino all’Adriatico. Bei tempi quelli senza i gruppi Whatsapp.
Intorno al castello ci sono i resti del borgo originario, raso al suolo dai diversi eventi sismici e mai ricostruito. Anche il castello fu più volte danneggiato dai terremoti che nel corso del tempo si sono susseguiti in queste zone, ma per fortuna fu restaurato e riportato in vita. Attualmente è liberamente visitabile (si può lasciare un’offerta libera) e attraverso una scala a chiocciola si può salire dentro il maschio e godere di una vista che spazia sulla valle del Tirino e l’altopiano di Navelli, poco lontani da Campo Imperatore.

Il mio consiglio è quello di recarsi a visitare Rocca Calascio all’ora del tramonto, quando il panorama si fa più suggestivo. Senza togliere nulla ai graziosi bar e ristorantini del borgo, gustarsi uno snack (nel nostro caso delle ottime ferratelle alla cipolla acquistate in una bottega di Santo Stefano di Sessanio) immersi tra i colori accesi del sole che cala dietro le montagne, è impagabile.

Qui di seguito trovate i dati del percorso che abbiamo fatto; si riferiscono all’intero giro, con visita al castello inclusa. Cliccando sui link dei miei profili Wikiloc, Strava e Komoot potete scaricare la traccia.

Rocca Calascio
DATA ESCURSIONE: luglio 22
PARTENZA: Via Plaja, Calascio
KM: 4 km A/R
DISLIVELLO: +195 m. circa
SCARICA LA TRACCIA: Wikiloc, Strava o Komoot.

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Santo Stefano di Sessanio, l’utopia possibile

Il nostro breve viaggio alla scoperta delle bellezze dell’Abruzzo inizia nel suo cuore di pietra, ovvero nel Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Come “campo base” abbiamo scelto una location unica, nata e rinata diverse volte nel corso della sua storia: Santo Stefano di Sessanio. Annoverato tra i borghi più belli d’Italia, questo paesino incastonato a 1.251 metri di altitudine nell’Appennino abruzzese, sembra rimasto immutato nel tempo.

Il suo massimo splendore lo aveva raggiunto nel 500, quando faceva parte del Gran Ducato di Toscana, grazie alla produzione della lana carfagna. Fu con la fine della transumanza che la vita nel borgo si fece più dura e iniziò un lento processo di decadenza, che portò all’allontanamento dei suoi abitanti e all’abbandono della maggior parte delle abitazioni.


Solo in epoca recente Santo Stefano ha ritrovato una nuova vita, grazie al turismo, ma la sua storia di rinascita è unica nel suo genere ed è legata a un nome: Daniele Kihlgren.
Figlio di una famiglia di imprenditori del cemento, questo “rampollo” italo- svedese è capitato per caso da queste parti, durante un viaggio in moto in fuga da una storia personale tormentata e alla ricerca di una ragazza che aveva conosciuto tempo prima. Fu un colpo di fulmine, evidentemente, sia per lei che per il luogo.
Kihlgren decise di investire ingenti risorse economiche in un progetto che potrebbe sembrare folle: recuperare il borgo in stato di abbandono e ricostruirlo, pietra dopo pietra, senza l’utilizzo del cemento.

Il cemento ha disonorato l’Italia
Daniele Kihlgren

Il suo progetto è sfociato nella creazione di quello che può considerarsi il primo albergo diffuso in Italia, chiamato Sextantio, come il pago sul quale nacque l’attuale centro abitato tra il IX e il XII secolo. Tale nome indicava la distanza di sei miglia romane da Peltuinum, centro dell’epoca che fungeva da tappa nel collegamento tra Roma e l’Adriatico.
Alloggiare nell’albergo diffuso Sextantio significa fare un salto indietro nel tempo, rivivere in un ambiente degli anni 20 del Novecento, con gli stessi arredi e i tessuti fatti come allora, senza però rinunciare al comfort. La tecnologia c’è ma non si vede.
L’obiettivo dell’imprenditore-filosofo era che l’utilizzo a scopo turistico non comportasse la perdita delle identità territoriali, che per una volta il profitto arrivasse dalla conservazione di un luogo e non dalla sua devastazione.

La mia è una battaglia di civiltà.
Daniele Kihlgren

Gli interni delle stanze sono ispirati alle fotografie che Paul Scheuermeier, linguista svizzero, scattò in Abruzzo intorno al 1920.
Durante il nostro soggiorno c’era una mostra di alcuni scatti dell’epoca, esposti tra i viottoli del paese; foto in bianco e nero, con volti seri, segnati dall’asprezza della vita.
Insieme ai quei volti immortalati nelle fotografie, anche le pietre sembravano parlare. Non si può non ascoltarle ed ammirarle, poiché raccontano la storia di questo borgo.
Si nota subito come Santo Stefano di Sessanio sia per lo più abitato quasi solo da turisti, ma la sensazione che ho avuto è che fosse un tipo di turismo “silenzioso”, in cerca di pace, di bellezza e di natura; un turismo che non distrugge, ma si adegua con rispetto al luogo.

Durante il terremoto del 2009 questo borgo ha subito diversi danni, ma ancora una volta è rinato. Guardandolo da lontano, si nota chiaramente che vicino alla sua famosa torre spiccano due altissime gru, che probabilmente spezzano un po’ il romanticismo del panorama, ma ci indicano come questo sia ancora un paese in “via di ricostruzione”.

A proposito di torre, gli abitanti di Santo Stefano sono molto legati alla loro Torre Medicea, considerata un vero simbolo per la città. In realtà esisteva già prima dell’arrivo dei Medici, che semplicemente apportarono alcune modifiche e si divertirono ad apporre qua e là per il borgo il loro stemma. La tanto amata torre crollò durante l’ultimo terremoto, anche perché nel corso del ‘900 furono fatte alcune modifiche che appesantirono molto la sua struttura. In attesa di ricostruirla, fu riprodotto il suo scheletro con una struttura in tubi e, in seguito, grazie alla collaborazione dei cittadini che ne conservarono le pietre, le fu data nuova vita. Attualmente è possibile visitarla e dalla sua cima si possono scorgere in lontananza le vette dei massicci che circondano il borgo.

La nostra scoperta dell’Abruzzo è appena cominciata; nei prossimi articoli vi parlerò di tante altre meraviglie. Prossima tappa: Rocca Calascio!

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