Lo chiamavano Campo Imperatore

Nei dintorni dell’incantevole borgo di Santo Stefano di Sessanio, del quale ho già raccontato la romantica storia di rinascita, si trovano altrettanti luoghi straordinari di cui il ricordo per me resterà indelebile. Oltre Rocca Calascio e il suo tramonto, un altro luogo sicuramente in grado di emozionare è Campo Imperatore, che fa da tappeto al grande re Corno Grande del Gran Sasso, la cima più alta degli Appennini. Ho decine di foto di Campo Imperatore, ma nessuna è in grado di rendere la sua bellezza.

Ci troviamo all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga e questo altipiano, con i suoi 18km di lunghezza, 8km di larghezza e un’altitudine che varia tra i 1.460 metri ai 2.138 (coprendo un’area di circa 75 chilometri quadrati), è il più esteso degli Appennini.

Campo Imperatore fa contenti tutti: camminatori a caccia di sentieri, motociclisti che inseguono emozioni, ciclisti che maledicono motocilisti, automobilisti che bramano strade da sogno e camperisti in cerca di silenzio e di cieli stellati. Sì, perché qui la presenza dell’uomo sembra quasi non esserci; a parte qualche fattoria con bovini e cavalli, le uniche forme di vita sono i visitatori di passaggio e la natura.

Si potrebbero passare ore percorrendo le strade semideserte di Campo Imperatore, osservando la sua immensità, le sue sfumature e le ombre delle nuvole sui prati. Questo luogo ricorda a tratti il Far West e a tratti il Tibet. Non a caso è stato scelto come location per girare famosi film, come ad esempio quelli della serie “Lo chiamavano Trinità” (c’è anche un cartello che indica i luoghi delle scene più famose, dove i “pellegrini” degli spaghetti western vanno a scattarsi la foto di rito). Non a caso è chiamato Piccolo Tibet, perché lo ricorda, soprattutto se visto dall’alto.

Qui si trova, a 2.138 metri di altitudine, l’Osservatorio Astronomico d’Abruzzo, fondato nel 1.965 e ancora utilizzato; è il più alto d’Italia e l’unico dotato di telescopio a infrarossi. Ci sarebbe piaciuto visitarlo, ma è aperto solo in determinati giorni e orari. Si raggiunge con la funivia o, nella bella stagione, in macchina (l’ingresso all’area e al parcheggio, che è anche il punto di partenza per diverse escursioni sul Gran Sasso, costa 5 euro per l’intero giorno. Dei gentili omini sporgono il biglietto sulla strada).

Poco distante dall’Osservatorio c’è il famoso Albergo Campo Imperatore, dove venne rinchiuso Mussolini (prima di essere liberato da una squadra di paracadutisti), precisamente nella stanza 220 (che ha mantenuto gli arredi dell’epoca ed è visitabile come museo).

Un’altra tappa culturale che bisogna assolutamente fare è quella ai famosi ristori Mucciante e Giuliani, situati a poca distanza uno dall’altro; qui si può comprare la carne per poi grigliarla all’esterno su barbecue già accesi e tenuti in vita da personale apposito. Si tratta davvero di una soluzione comoda e goduriosa, che lascia spazio anche alla socializzazione tra diversi tipi di avventurieri.

Da Campo Imperatore partono diversi sentieri, di lunghezza e difficoltà differenti, che conducono o avvicinano al maestoso Corno Grande.
Potevo rinunciare a questa esperienza di trekking sull’Appenino? Seguitemi per scoprire la mia avventura targata “montagna schiappa” sul Corno Grande del Gran Sasso! Per quanto mi riguarda, un’impresa epica e irripetibile!

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Rocca Calascio, a piedi verso il castello più alto d’Abruzzo

Chi mi segue sa che quando viaggio non conosco riposo, saltello da una parte all’altra per conoscere il più possibile, ma senza dimenticare il lato “tarallucci e vino” della vita. Oggi vi porto virtualmente in un luogo magico, che nella bella stagione si presta come location ideale per consumare un aperitivo “al sacco”, open air, immersi tra natura, storia e avvolti da un tramonto che lascia senza parole. Quindi indossate un paio di scarpe comode, mettete nello zaino qualche prodotto tipico locale e si parte!

A poca distanza da Santo Stefano di Sessanio, si trova un altro incantevole borgo medioevale, Calascio. Abbandonato alla fine della seconda guerra mondiale, riprende vita nel periodo estivo e nei weekend grazie ai tanti localini turistici e ai mercatini.
I visitatori transitano da qui per andare a visitare la famosa Rocca Calascio, che con i suoi 1.460 m. di altitudine è uno dei castelli più alti d’Italia. Dall’alto domina sul parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, del quale fa parte, regalando un panorama assolutamente mozzafiato soprattutto al calar del sole.
In questo luogo unico e suggestivo sono stati girati diversi film, tra i quali i più famosi sono “Il nome della rosa” e “Ladyhawke”.

Ecco qualche dato storico. Rocca Calascio apparteneva all’antica baronia di Carapelle, un dominio feudale del XIII secolo (di cui faceva parte anche Santo Stefano di Sessanio). Il borgo di Calascio nacque perché le modeste dimensioni del castello non consentivano di ospitare molte persone, le quali quindi si “trasferirono” alle sue pendici vivendo comunque all’interno delle mura che proteggevano la rocca.
Anche qui, come a Santo Stefano di Sessanio, è la pietra la vera regina. Passeggiando per i viottoli si percepisce forte il contrasto tra cura e decadenza, passato silenzioso e presente pieno di vita.

Per arrivare alla Rocca ci sono diverse opzioni: o si ha la fortuna di trovare posto per l’auto nel piccolo parcheggio alle porte del borgo di Calascio (nel paese le automobili non possono entrare), oppure si lascia la macchina lungo la strada che si inerpica sul pendio. Noi abbiamo deciso di lasciarla a valle, nei pressi del centro abitato moderno di Calascio, e di procedere a piedi lungo il sentiero sterrato che attraversa anche i diversi tornanti della strada asfaltata. Si tratta di una camminata semplice, che dura circa 40 minuti e che è consigliabile fare, soprattutto in estate, nelle ore meno calde perché è quasi totalmente esposta al sole. Nel box al fondo dell’articolo trovate l’itinerario e la traccia da scaricare.

Per i camminatori più arditi, esiste anche un anello da fare a piedi che connette Santo Stefano di Sessanio, Calascio e Castelvecchio Calvisio. E’ un sentiero tecnicamente semplice, percorribile in 3 ore e mezza e con 590 m. di dislivello, ma non è consigliabile in estate per via del caldo.

La prima cosa che si scorge arrivando in cima è la Chiesa della Madonna della Pietà, a pianta ottagonale, risalente al XVI e XVII secolo. Poco più su si trova, aggrappato a uno sperone di roccia, il Castello di Rocca Calascio. La sua funzione ovviamente era quella di osservazione a scopo difensivo, ma faceva anche parte di un sistema di comunicazione tra castelli, per mezzo di torce o specchi, che pare giungesse fino all’Adriatico. Bei tempi quelli senza i gruppi Whatsapp.
Intorno al castello ci sono i resti del borgo originario, raso al suolo dai diversi eventi sismici e mai ricostruito. Anche il castello fu più volte danneggiato dai terremoti che nel corso del tempo si sono susseguiti in queste zone, ma per fortuna fu restaurato e riportato in vita. Attualmente è liberamente visitabile (si può lasciare un’offerta libera) e attraverso una scala a chiocciola si può salire dentro il maschio e godere di una vista che spazia sulla valle del Tirino e l’altopiano di Navelli, poco lontani da Campo Imperatore.

Il mio consiglio è quello di recarsi a visitare Rocca Calascio all’ora del tramonto, quando il panorama si fa più suggestivo. Senza togliere nulla ai graziosi bar e ristorantini del borgo, gustarsi uno snack (nel nostro caso delle ottime ferratelle alla cipolla acquistate in una bottega di Santo Stefano di Sessanio) immersi tra i colori accesi del sole che cala dietro le montagne, è impagabile.

Qui di seguito trovate i dati del percorso che abbiamo fatto; si riferiscono all’intero giro, con visita al castello inclusa. Cliccando sui link dei miei profili Wikiloc, Strava e Komoot potete scaricare la traccia.

Rocca Calascio
DATA ESCURSIONE: luglio 22
PARTENZA: Via Plaja, Calascio
KM: 4 km A/R
DISLIVELLO: +195 m. circa
SCARICA LA TRACCIA: Wikiloc, Strava o Komoot.

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Santo Stefano di Sessanio, l’utopia possibile

Il nostro breve viaggio alla scoperta delle bellezze dell’Abruzzo inizia nel suo cuore di pietra, ovvero nel Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Come “campo base” abbiamo scelto una location unica, nata e rinata diverse volte nel corso della sua storia: Santo Stefano di Sessanio. Annoverato tra i borghi più belli d’Italia, questo paesino incastonato a 1.251 metri di altitudine nell’Appennino abruzzese, sembra rimasto immutato nel tempo.

Il suo massimo splendore lo aveva raggiunto nel 500, quando faceva parte del Gran Ducato di Toscana, grazie alla produzione della lana carfagna. Fu con la fine della transumanza che la vita nel borgo si fece più dura e iniziò un lento processo di decadenza, che portò all’allontanamento dei suoi abitanti e all’abbandono della maggior parte delle abitazioni.


Solo in epoca recente Santo Stefano ha ritrovato una nuova vita, grazie al turismo, ma la sua storia di rinascita è unica nel suo genere ed è legata a un nome: Daniele Kihlgren.
Figlio di una famiglia di imprenditori del cemento, questo “rampollo” italo- svedese è capitato per caso da queste parti, durante un viaggio in moto in fuga da una storia personale tormentata e alla ricerca di una ragazza che aveva conosciuto tempo prima. Fu un colpo di fulmine, evidentemente, sia per lei che per il luogo.
Kihlgren decise di investire ingenti risorse economiche in un progetto che potrebbe sembrare folle: recuperare il borgo in stato di abbandono e ricostruirlo, pietra dopo pietra, senza l’utilizzo del cemento.

Il cemento ha disonorato l’Italia
Daniele Kihlgren

Il suo progetto è sfociato nella creazione di quello che può considerarsi il primo albergo diffuso in Italia, chiamato Sextantio, come il pago sul quale nacque l’attuale centro abitato tra il IX e il XII secolo. Tale nome indicava la distanza di sei miglia romane da Peltuinum, centro dell’epoca che fungeva da tappa nel collegamento tra Roma e l’Adriatico.
Alloggiare nell’albergo diffuso Sextantio significa fare un salto indietro nel tempo, rivivere in un ambiente degli anni 20 del Novecento, con gli stessi arredi e i tessuti fatti come allora, senza però rinunciare al comfort. La tecnologia c’è ma non si vede.
L’obiettivo dell’imprenditore-filosofo era che l’utilizzo a scopo turistico non comportasse la perdita delle identità territoriali, che per una volta il profitto arrivasse dalla conservazione di un luogo e non dalla sua devastazione.

La mia è una battaglia di civiltà.
Daniele Kihlgren

Gli interni delle stanze sono ispirati alle fotografie che Paul Scheuermeier, linguista svizzero, scattò in Abruzzo intorno al 1920.
Durante il nostro soggiorno c’era una mostra di alcuni scatti dell’epoca, esposti tra i viottoli del paese; foto in bianco e nero, con volti seri, segnati dall’asprezza della vita.
Insieme ai quei volti immortalati nelle fotografie, anche le pietre sembravano parlare. Non si può non ascoltarle ed ammirarle, poiché raccontano la storia di questo borgo.
Si nota subito come Santo Stefano di Sessanio sia per lo più abitato quasi solo da turisti, ma la sensazione che ho avuto è che fosse un tipo di turismo “silenzioso”, in cerca di pace, di bellezza e di natura; un turismo che non distrugge, ma si adegua con rispetto al luogo.

Durante il terremoto del 2009 questo borgo ha subito diversi danni, ma ancora una volta è rinato. Guardandolo da lontano, si nota chiaramente che vicino alla sua famosa torre spiccano due altissime gru, che probabilmente spezzano un po’ il romanticismo del panorama, ma ci indicano come questo sia ancora un paese in “via di ricostruzione”.

A proposito di torre, gli abitanti di Santo Stefano sono molto legati alla loro Torre Medicea, considerata un vero simbolo per la città. In realtà esisteva già prima dell’arrivo dei Medici, che semplicemente apportarono alcune modifiche e si divertirono ad apporre qua e là per il borgo il loro stemma. La tanto amata torre crollò durante l’ultimo terremoto, anche perché nel corso del ‘900 furono fatte alcune modifiche che appesantirono molto la sua struttura. In attesa di ricostruirla, fu riprodotto il suo scheletro con una struttura in tubi e, in seguito, grazie alla collaborazione dei cittadini che ne conservarono le pietre, le fu data nuova vita. Attualmente è possibile visitarla e dalla sua cima si possono scorgere in lontananza le vette dei massicci che circondano il borgo.

La nostra scoperta dell’Abruzzo è appena cominciata; nei prossimi articoli vi parlerò di tante altre meraviglie. Prossima tappa: Rocca Calascio!

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Tra castelli e formaggi: cicloturismo in Val d’Ayas

Siccome non mi basta umiliarmi in territorio piemontese a cavallo della mia fiammante bici elettrica, tanto odiata dai ciclisti livello PRO, ogni tanto emigro in regioni limitrofe (ma non solo), per tracciare sempre nuovi itinerari di cicloturismo umile. Dopo aver percorso le bellissime piste ciclabili del Carso, dopo essere quasi morta nelle interessanti salite della città di Trieste e, infine, dopo aver sfidato il territorio lombardo sulla pista ciclabile della Val Brembana, dal Piemonte ho sconfinato in una delle regioni “gioielline” d’Italia, famosa per le sue montagne, la fontina e gli zoccoli di legno: si tratta della la Valle d’Aosta, che ci guarda con quel disprezzo tipico delle regioni autonome bilingue che hanno capito tutto dalla vita.

Obiettivamente, la Valle d’Aosta ha capito quasi tutto davvero e ha saputo sfruttare le sue potenzialità paesaggistiche e naturalistiche per attirare diversi tipi di turista, da coloro che praticano sport seriamente, alle persone che deambulano a malapena.
A proposito di sportivi di basso profilo, di cui presuntuosamente mi posso ritenere ambasciatrice, ho potuto constatare che la Val d’Ayas offre tantissimi itinerari percorribili a piedi e in bicicletta.

Questa valle, che è velocemente raggiungibile da Ivrea o anche da Torino grazie a una delle autostrade più care d’Italia, si trova ai piedi del gruppo del Monte Rosa ed è attraversata dal torrente Evançon, affluente della Dora Baltea. Qui si trovano i Rû Courtaud e Rû d’Arlaz , due dei canali artificiali che sono tipici della regione.
In questa zona, come le altre attorno al massiccio del Monte Rosa, si sono stabilite intorno al XII-XIII secolo le popolazioni Walser (di origine germanica), di cui ci sono chiari riferimenti culturali a partire dalle tipiche abitazioni costruite in legno o pietra.
A proposito di case tipiche, in quest’area si trovano anche i rascard, costruzioni sostenute da “pilastrini” di legno a forma di fungo; infatti un tempo servivano per conservare i cereali e quindi roditori e umidità costituivano un pericolo per il raccolto.

Terminata la parentesi culturale, di seguito illustrerò gli itinerari di cicloturismo umile che ho percorso in sella alla mia e-bike (alla faccia dei veri ciclisti). Sotto una breve descrizione troverete i dettagli dei percorsi con la possibilità di scaricare la traccia.

COLLE DE JOUX E TZECORE. Il colle de Joux, da Brusson, è uno dei più semplici da scalare in bicicletta ed è anche molto panoramico, poiché dalla sua cima si può ammirare tutta la valle principale fino al Monte Bianco. Dalla sommità è possibile fare una deviazione attraverso la strada forestale che conduce al Rû Courtaud, per raggiungere un punto panoramico sulla Valle d’Ayas. Tornando indietro sulla via principale, si imbocca una strada non asfaltata a mezzacosta, che porta al paese Sommarese, dal quale si risale al Colle dello Tzecore. Superato il colle si scende verso Challand Saint-Anselme; prima di arrivare al centro abitato si prende una strada che costeggia il Rû d’Arlaz, che dolcemente risale la valle. A questo punto bisogna avere le forze per tornare al punto di partenza (Brusson) e concludere in bellezza con due rampette spaccagambe.

COLLE DE JOUX E TZECORE
KM: 29 circa
DISLIVELLO: + 700 m
PUNTO DI PARTENZA e DI ARRIVO: Brusson
TIPO DI TRACCIATO: asfalto, sterrato semplice
SCARICA LA TRACCIA DEL GIRO: https://www.wikiloc.com/ebike-trails/col-de-joux-e-tzecore-111414851
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VAL D’AYAS. Questo itinerario risale la valle sulla destra orografica del torrente Evançon toccando i principali centri abitati della stessa. Da Brusson si raggiunge Extrepieraz percorrendo quelle che di inverno sono piste da fondo. Raggiunti i suoi campeggi, si procede in salita vera raggiungendo uno degli alpeggi più panoramici della zona, Crepin.
Da lì si attraversa il bosco di Praz Charbon e, imboccando una strada asfaltata panoramica, si raggiunge nell’ordine Lignod, Antagnod e Champoluc. Costeggiando il fiume si arriva infine all’ultimo paese della valle, Saint Jacques des Allemands per poi ritornare a Brusson dalla strada principale.

VAL D’AYAS
KM: 35 circa
DISLIVELLO: +740 m.
PUNTO DI PARTENZA e DI ARRIVO: Brusson
TIPO DI TRACCIATO: asfalto, sterrato semplice
TRACCIA DEL NOSTRO GIRO: https://www.wikiloc.com/ebike-trails/cicloturismo-in-val-dayas-111414904
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CASTELLO DI GRAINES. Dai pratoni di Brusson si imbocca una strada sterrata che costeggia al Rû d’Arlaz, arrivando a Challand Saint-Anselme. Da qui si scende ancora verso Challand Saint-Victor, svoltando a sinistra per Tollegnaz. Dopodiché si risale la valle fino ad Allesaz, si imbocca il sentiero lungo il fiume (che fa parte del percorso di gara del Monte Rosa Prestige) e si raggiunge Arcesaz. Si risale quindi fino al castello, dove conviene legare la bici prima di intraprendere a piedi la breve e dura salita. Il castello di Graines è uno dei più antichi della Valle d’Aosta (risale al 515 d.C) e regala una bella vista panoramica sulla vallata.

CASTELLO DI GRAINES
KM: 23 circa
DISLIVELLO: +570 m.
PUNTO DI PARTENZA e DI ARRIVO: Brusson
TIPO DI TRACCIATO: asfalto, sterrato semplice
TRACCIA DEL NOSTRO GIRO: https://www.wikiloc.com/ebike-trails/cicloturismo-al-castello-di-graines-111414679
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Concludo questo viaggio su due ruote precisando che il vero ciclista-schiappa non può essere indifferente alla gastronomia locale, quindi tra una tappa e l’altra è d’obbligo sostare nelle diverse fromagerie per degustare prodotti tipici quali il famoso lardo di Arnad, la fontina, il fromazdo e le svariate tipologie di toma. Con queste delizie che scorrono nelle vene, si pedala peggio ma più felici!

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La Baia degli Infreschi, un paradiso del Cilento che si raggiunge a piedi

Alert! Questo articolo apparteneva a un mio vecchio blog, pertanto le informazioni che trovate potrebbero non essere aggiornate in quanto queste escursioni risalgono a qualche annetto fa.

Vi avevo lasciati a Palinuro, tra le spiagge e le baie che fecero da sfondo ai racconti dell’Odissea e dell’Eneide. Ora ci spostiamo più a sud, raggiungiamo Camerota e ci immergiamo di nuovo nel mito.

Il nome di questa località arriva appunto da Kamaraton, la bellissima ninfa di cui si innamorò il nocchiere Palinuro che, da quello che ho capito, non era di certo baciato dalla fortuna. Pare che la ninfa ignorò completamente l’interesse del povero innamorato, il quale in preda alla disperazione tentò invano di catturare l’immagine della ninfa nell’acqua. Questa volta però la dea dell’amore vendicò l’innamorato respinto e, per punire la crudeltà di Kamaraton, la trasformò in una roccia sulla quale oggi sorge il borgo di Camerota.

La Calanca e le sue calette. Il mare e le spiagge della costa di Marina di Camerota sono degne di una sosta, a partire dalla Calanca, la spiaggia principale della cittadina. La sabbia è chiara e la spiaggia è circondata da suggestivi scogli che le danno quell’aspetto tra il caraibico e il selvaggio. Il promontorio è sormontato da una torre saracena e un percorso sterrato tra rocce e vegetazione dà la possibilità di scoprire diverse deliziose calette che, essendo più nascoste, sono anche più intime e rilassanti rispetto la spiaggia principale. Il mare presenta diverse sfumature di azzurro e al tramonto il cielo esplode di colore.

La baia degli infreschi. La vera perla di questa costa è una baia nascosta che un tempo era luogo di sosta e rifugio per le imbarcazioni. Il suo nome è Baia degli Infreschi ed è raggiungibile solo via mare o attraverso un sentiero di 7 km, andata e ritorno. E’ circondata infatti da strade di proprietà privata quindi teoricamente le macchine non possono percorrerle

Considerata la mia insofferenza per le barche turistiche, quel giorno abbiamo deciso di svegliarci di buon’ora per intraprendere il sentiero a piedi verso la baia. Come al solito la sveglia suona molto presto quando ci sono obiettivi di questo tipo, ma poi non si sa per quale disfunzione temporale ci si trova all’inizio del sentiero quando il sole è già alto e cocente.

N.B. Il sentiero parte alla fine della strada che costeggia la spiaggia principale di Marina di Camerota (lato sud quindi). Si può lasciare la macchina nei pressi del cimitero. Il sentiero è segnalato e varia da strada asfaltata, sentiero e terra battuta. Per molti tratti è esposto al sole quindi, se siete in periodo estivo è altamente consigliato non mettersi in cammino quando il sole è già alto. Non fate come me, in pratica.

Imboccato l’inizio del sentiero ci dà il benvenuto una bella salita. Poi si passa alla strada asfaltata e in seguito ci si immerge nella brulla vegetazione. Il sole picchiava senza pietà e più si proseguiva più ci si spogliava, usando le t-shirt come turbanti per proteggere la testa. Non bisogna mai sottovalutare la forza e la pericolosità del sole e del caldo nella stagione estiva in queste zone!

Lungo il percorso verso la Baia degli Infreschi si incontrano altre due cale. La prima è Cala Pozallo e l’altra è Cala Bianca. Entrambe meravigliose. La tentazione di fare una sosta è molta, ma la meta è ancora lontana e abbiamo deciso di proseguire. Dopo circa 2, 2 ore mezza di cammino finalmente si scorge dall’alto il paradiso.

Prima di scendere verso la cala, abbiamo incontrato un ragazzo che aveva appena parcheggiato la macchina arrivando da qualche strada sconosciuta.
Noi, stanchi e sudati, ci siamo un po’ risentiti e incuriositi, così abbiamo chiesto al giovane quale strada avesse fatto per arrivare in macchina. La sua spiegazione è stata alquanto vaga; indicandoci un punto indefinito verso le brulle colline; ci ha detto di aver seguito il suo senso della direzione e guidando verso il mare ha trovato la retta via. In pratica, ha utilizzato la miriade di sentieri privati dei contadini del luogo.

Ma la fatica del cammino è stata ripagata dalla bellezza della destinazione finale. La Baia degli Infreschi infatti è una splendida cala di ciottoli bianchi, circondata solo da rocce e vegetazione. Il mare accoglie i viandanti con le sue acque cristalline che vanno dall’azzurro allo smeraldo.

Ormeggiata vicino alla riva, una barca cucina il pesce fresco e lo serve direttamente in tavolate di legno sistemate sulla spiaggia. Niente a che vedere con il nostro pranzo al sacco, un connubio tra carboidrati e proteine: la pasta e fagioli, un ever green delle camminate.

Scavalcando la parete rocciosa sulla sinistra della prima spiaggia che si incontra arrivando dal sentiero, c’è una minuscola spiaggetta dove, se si è fortunati, si può godere di un po’ di solitudine, o quasi.

Noi abbiamo trovato altri due eroici escursionisti. C’è stata una comune accettazione perché eravamo arrivati a piedi e avevamo scalato la parete che divide le due spiagge della baia. Quindi ci siamo rispettati reciprocamente siglando un tacito accordo di convivenza a breve termine.

La sintonia silenziosa è stata tanta che non appena un barcone di turisti si è avvicinato alla nostra riva li abbiamo cacciati brutalmente, guardandoli con sguardo minaccioso e facendo inequivocabili cenni della mano che stavano a significare: “No no, qui si sta stretti, andate via.”

Il nome della Baia degli Infreschi deriva dalla particolarità dell’acqua. Infatti le sorgenti che sgorgano dalle rocce sotterranee fanno in modo che in superficie l’acqua rimanga più fredda, mentre sotto resti più calda. L’acqua cristallina è come una calamita dalla quale non potrete più separarvi.
E appena vi ricorderete che dovrete camminare altre due ore per tornare indietro, forse una lacrimuccia bagnerà il vostro viso e il pensiero di trasferirvi lì definitivamente solleticherà la vostra mente.

Non ci credete? Non vi resta che provare….allacciatevi le scarpe!

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[N.B. Le foto di questo articolo sono state scattate da M. Cucciniello]

Remando verso cale nascoste: come Enea nel mare Cilento

Alert! Questo articolo apparteneva a un mio vecchio blog, pertanto le informazioni che trovate potrebbero non essere aggiornate in quanto queste escursioni risalgono a qualche annetto fa.

Il Cilento se ne resta in disparte, quasi in silenzio, nel sud della Campania. Al contrario di altre bellissime zone balneari in Italia, come per l’appunto quelle della Costiera Amalfitana di cui ho parlato nei precedenti articoli, non fa clamore e si sta salvando dal turismo di massa internazionale.

Eppure il Cilento è una vera meraviglia.
Non a caso questa subregione della provincia di Salerno è stata dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità.
Non a caso queste terre hanno ispirato le narrazioni di scrittori e poeti, a partire dai greci e dai romani che hanno scelto il Cilento come ambientazione dei loro miti. Il più famoso è proprio quello legato all’Odissea; pare infatti che la famosa isola delle sirene di Ulisse fosse proprio l’isoletta di fronte a Punta Licosa.

Inseguendo l’atmosfera creata da questi miti, facciamo tappa a Palinuro e Marina di Camerota, due conosciute località della costa, e ci mettiamo alla ricerca degli angoli di paradiso che questa zona ci offre.

Palinuro e il suo Arco Naturale. Il nome di questa cittadina arriva per l’appunto dalla penna di Virgilio e il suo poema “Eneide”. Palinuro era il nocchiero di Enea che, diciamolo, fece una brutta fine. Mentre la flotta navigava proprio di fronte al tratto di terra che oggi conosciamo come Cilento, Palinuro si addormentò e cadde in mare. Vi restò naufrago tre giorni, prima di toccare terra ed essere ucciso barbaramente dalla popolazione locale. Così si soddisfò il desiderio di Nettuno, che in cambio di una vittima avrebbe protetto la flotta durante il viaggio.

La spiaggia più vicina al centro di Palinuro è quella ai piedi di un maestoso arco naturale. La balneazione e la sosta su questo tratto di spiaggia sarebbe vietato per motivi di sicurezza. Sembra infatti che qualche volta pezzi di roccia franino con il rischio di colpire mortalmente qualcuno e nessuno si è ancora preoccupato di mettere la zona in sicurezza. Solo un cartello e una recinzione facilmente scavalcabile mettono in guardia i bagnanti dal pericolo.
In realtà nessuno rispetta questo divieto, di conseguenza non lo abbiamo fatto neanche noi.

Per raggiungere questa suggestiva spiaggia bisogna arrivare fino alla foce del fiume Mingardo seguendo semplicemente le indicazioni che portano all’Arco Naturale. Anche le altre spiagge limitrofe non sono niente male e aspettare il tramonto sul bagnasciuga che si affaccia su un piccolo isolotto è assolutamente consigliato.

Baia del buon dormire. La vera perla nascosta di Palinuro è la Baia del Buon Dormire, una piccola cala di sabbia fine e dorata, incastonata tra la scogliera e con un mare color smeraldo.
Purtroppo l’accesso via terra è stato “privatizzato” da un Residence, rendendo questa spiaggia privilegio di pochi.
Essendo il sentiero chiuso dalla proprietà privata, come altri temerari esploratori, non ci siamo dati per vinti e abbiamo escogitato un altro modo per raggiungerla.

Dalla spiaggia della Marinella a Palinuro (la quale tra l’altro è comunque molto bella) abbiamo affittato una canoa. Con zaino in spalla abbiamo remato per diversi minuti nelle acque cristalline, fino a “girare l’angolo” della parete di roccia che divide la spiaggia normale dalla caletta. Ed eccoci nella baia, che si affaccia sullo scoglio del Coniglio.

(Quando arriverete trionfanti e fieri con la vostra canoa o il vostro pedalò, probabilmente i clienti dell’Hotel vi guarderanno storto da sotto l’ombrellone).

Un’altra alternativa è quella di affidarsi ai servizi di navetta delle barche a motore per turisti, ma noi siamo contrari all’utilizzo di questo tipo di mezzi perché riteniamo siano inquinanti ed invasivi.

A questo punto, parcheggiato il bolide e indossate le scarpine da roccia (compagne fedeli dei nostri viaggi) ci si può godere al meglio le acque cristalline della Baia del Buon Dormire.

La prossima tappa del nostro viaggio all’insegna dei racconti epici ci spinge più a sud, in una delle cale più belle d’Italia, che questa volta abbiamo raggiunto…a piedi!

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[N.B. Le foto di questo articolo sono state scattate da M. Cucciniello]

Un tuffo da sovrana a Sorrento: i Bagni della Regina Giovanna

Eccoci giunti alla terza tappa del viaggio in Costiera Amalfitana.
Dopo avere scoperto il più suggestivo fiordo presente in Italia e dopo esserci addentrati nella natura magica della Valle delle Ferriere di Amalfi, ci dirigiamo verso Sorrento perché anche questo gioiellino ha le sue storie nascoste da svelarci!

Facciamo un bel tuffo nella leggenda, sospesi tra fantasia e realtà, immergendoci in un luogo nascosto nella natura: i Bagni della Regina Giovanna.
Si tratta di una vera e propria piscina naturale circondata dalla scogliera. L’acqua è color smeraldo e un arco naturale fa scorgere il mare aperto dal quale resta protetta.

Il nome di questo luogo deriva da Giovanna d’Angiò, regina di Napoli, la quale, si dice, venisse in villeggiatura in questa zona tra il 1371 e il 1435. Pare che la regina si concedesse dei bagni con i suoi giovani amanti proprio in questo luogo, perché la conformazione naturale della conca circondata dalle rocce la teneva lontana da sguardi indiscreti. Che fine facessero gli amanti non ci è dato saperlo, ma pare che qualcuno, una volta saziata la vorace sovrana, si ritrovasse e volare giù dalla scogliera.

A parte questo dettaglio macabro di dubbia veridicità, possiamo assicurare che i Bagni della Regina Giovanna sono davvero uno spettacolo naturale che vi daranno la possibilità di fare un bagno “da regina”.

Raggiungere i Bagni della Regina Giovanna non è per niente impegnativo. Bisogna recarsi sul promontorio di Punta Capo a Sorrento e intraprendere un sentiero che conduce a una scogliera a picco sul mare, dove tra l’altro si trova anche un sito archeologico e i resti di un’antica villa romana, Villa di Pollio Felice. Si tratta di una passeggiata di una ventina di minuti al termine della quale una scalinata vi farà raggiungere questo splendido specchio d’acqua circondato dalla roccia e dalla vegetazione.
Vivamente consigliato l’utilizzo di scarpe comode per raggiungere la meta e ciabatte da roccia per nuotare, poiché il fondo è roccioso. Inoltre, se vi munite di maschera e occhialini, potrete esplorare i meravigliosi fondali!

Ovviamente i mesi migliori per esplorare questa zona sono giugno e settembre, perché nei mesi centrali dell’estate la situazione potrebbe essere molto affollata!

Vallone dei Mulini a Sorrento

A Sorrento esiste un altro tesoro nascosto da scoprire: il Vallone dei Mulini. Quest’ultimo è il meglio conservato dei cinque valloni che solcano la penisola sorrentina. Lo scorcio che ci regala dalla città è talmente suggestivo da guadagnarsi la top 10 tra i luoghi abbandonati più belli e curiosi al mondo. Il nome arriva appunto da un vecchio mulino che veniva utilizzato per la macinazione del grano e che progressivamente è caduto in disuso e infine abbandonato.

Una volta andato via l’uomo, la natura ha preso il sopravvento inglobando le mura dell’antica costruzione e trasformando la zona in una specie di giungla di impossibile accesso. Il fascino sta tutto lì, ancora una volta, nella natura che si impossessa del passato.

Sicuramente vi chiederete come è possibile vederlo. Beh, sporgendosi dall’alto in un punto ben preciso di Sorrento.
Come nel caso del Fiordo di Furore, il vallone è lì sotto al vostro naso ma se non sapete della sua esistenza o siete distratti ve lo potreste perdere. Come vederlo? Andate in via Fuorimura e sporgetevi dalla ringhiera. Se non trovate l’esatto punto chiedete ai passanti!

Si conclude qui la trilogia del mio viaggio in Costiera Amalfitana, dove ho imparato che anche le mete turistiche più conosciute riescono a mantenere il fascino di un territorio da scoprire, a volte camminando, a volte semplicemente fermandosi un attimo ad osservare.
Per gli amanti del “turismo lento” questo territorio offre davvero una vasta scelta di sentieri e percorsi escursionistici tra mare e colline.

[N.B. Le belle foto di questo articolo sono state scattate da M. Cucciniello]

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Amalfi tra natura e storia: la Valle delle Ferriere

Alert! Questo articolo apparteneva a un mio vecchio blog, pertanto le informazioni che trovate potrebbero non essere aggiornate in quanto queste escursioni risalgono a qualche annetto fa.

Dovete sapere che nel Fiordo di Furore, di cui vi ho parlato nel precedente articolo, un tempo si trovavano gli opifici dove avveniva la lavorazione della carta. In realtà in Costiera Amalfitana vi sono altri luoghi che conservano la memoria di questa attività così diffusa in passato.
Uno di questi è proprio in prossimità della città di Amalfi.
Sembra che questa ex Repubblica Marinara, infatti, già da prima del 1200 avesse messo in moto le sue cartiere e producesse una tipologia molto pregiata di carta, chiamata Charta Bambagina.
La famosa carta di Amalfi veniva prodotta proprio nella cosiddetta Valle dei Mulini; pare che le sue cartiere rifornissero di carta tutte le città del Sud Italia.

Se fate parte del team di quelli che in vacanza amano esplorare e finire la giornata con la sensazione di indolenzimento alle gambe, amerete questo itinerario tra natura e storia che permettere di ripercorrere il passato produttivo di Amalfi, raggiungendola dall'”alto” attraverso un percorso a piedi lungo la Valle delle Ferriere (l’altro nome della Valle dei Mulini).

L’inizio del sentiero si trova a Pontone e per l’esattezza nella piazzetta San Giovanni. Si può lasciare la macchina in un fantastico parcheggio a pagamento (l’unica opzione, per lo meno d’estate).
Se si viaggia con i mezzi pubblici esistono delle linee di autobus che collegano Amalfi a Ravello e Scala; alcuni di essi deviano anche per Pontone. Altrimenti si può raggiungere Pontone a piedi da uno di questi due paesi, che è quello che abbiamo fatto noi al ritorno da Amalfi per riprendere l’auto parcheggiata (nonostante avessimo svuotato i portafogli, la moneta non era bastata per coprire tutto l’arco della giornata e ci siamo trovati la multa!).

Bene. Lasciata la macchina, provvisti di pranzo al sacco e acqua fresca ci siamo messi in cammino sotto al sole cocente di mezzogiorno (sicuramente non è l’orario consigliato per iniziare una camminata) prendendo per l’appunto il sentiero che parte da Pontone.
Dopo un primo tratto soleggiato tra i limoneti e vigneti del paese si inizia ad entrare nella boscaglia. Da questo momento in poi tutto è più fresco, non solo per l’ombra ma anche per la presenza del torrente Canneto che vi accompagnerà per gran parte del percorso.
Questo è segnalato con strisce bianche e rosse sugli alberi o sulle pietre, ma se siete inclini alla distrazione potreste rischiare di prendere un viottolo sbagliato tra i tanti che intersecano la strada principale. Noi per non farci mancare niente ci siamo persi, ma per fortuna ce ne siamo accorti quasi subito finendo in una fitta trama di rovi e arbusti.

La Valle delle Ferriere si chiama così proprio perché lungo questo meraviglioso sentiero immerso nella natura si incontrano diverse ferriere risalenti all’epoca medioevale. L’atmosfera è davvero suggestiva perché la natura si è letteralmente impadronita di questi ruderi. La vegetazione è cresciuta selvaggiamente, muschi ed erbe rampicanti si espandono sulle mura abbandonate e alberi dalle grandi radici sono cresciuti al loro interno. Diverse cascate rompono il silenzio della vallata.

Dopo aver raggiunto la prima ferriera a fianco del torrente, c’è la possibilità di scegliere se fare una piccola deviazione per raggiungere la Riserva Integrale e ammirare gli ultimi esemplari di felce che pare risalgano all’epoca della glaciazione. Il percorso non è lungo ma un po’ più impegnativo, quindi tenetelo a mente prima di decidere se proseguire.

Dopo esserci scatenati con l’esplorazione dei ruderi e avere scattato foto di ogni tipo vicino alla cascata più grande che si incontra durante il cammino, abbiamo proseguito scendendo la vallata in direzione di Amalfi. Dopo le ferriere, incontriamo anche gli antichi mulini che sanno di storia della gloria perduta di Amalfi e la sua carta.

La Valle prende così le sembianze di un museo a cielo aperto, dove la natura ha preso il sopravvento creando un atmosfera quasi magica.

Per chi vuole allontanarsi dalle orde di turisti in tenuta da spiaggia, questo percorso sembra un’ottima alternativa per vedere la Costiera da un altro punto di vista.

Raggiungere Amalfi alla fine di questa camminata ha sicuramente dato un valore aggiunto al nostro viaggio. E quale miglior premio se non una sfogliatella della famosa pasticceria Andrea Panza, vicino alla piazza del Duomo di Amalfi?

[N.B. Le belle foto di questo articolo sono state scattate da M. Cucciniello]

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Costiera Amalfitana nascosta: a piedi al Fiordo di Furore

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Se pensi alla Costiera Amalfitana, quali immagini ti vengono in mente?
Probabilmente le classiche immagini da cartolina di Sorrento, Positano e Amalfi, incastonate nella scogliera a picco sul mare cristallino.
Oppure i limoni grandi come la tua faccia, la spremuta fatta al momento da un signore con il carrettino che parla un misto tra dialetto e inglese.
Sicuramente il traffico di automobili, scooter e i pullman dei turisti che sembrano rimanere incastrati nelle stradine a strapiombo della Costiera.
E ovviamente il mare cristallino e le spiagge rinomate.

Ma forse pochi sanno che la Costiera Amalfitana non è solo questo; ci sono angoli nascosti, meno conosciuti, lontani dal turismo di massa. La Costiera è percorsa da una miriade di sentieri immersi nella natura mediterranea, a picco sul mare e intrisi di leggenda. Siamo nel Parco Regionale dei Monti Lattari e uno di questi sentieri porta al Fiordo di Furore.

Eh sì, non c’è bisogno di andare in Norvegia per trovare un fiordo. Ne abbiamo anche uno in Italia, proprio in Costiera Amalfitana. Si chiama Fiordo di Furore e con quelli norvegesi non ha proprio niente a che vedere. Tecnicamente non è un vero e proprio fiordo, ma una rìa; comunque è conosciuto con questo nome.

La leggenda narra che il diavolo in persona si presentò agli abitanti di Furore, borgo che si trova nella vallata soprastante dal quale prende il nome, e che, non essendo stato accolto in maniera molto ospitale, pensò di lasciare per dispetto un “ricordino” solido.
Si, proprio quello.
Pare che per pulirsi poi il sedere il diavolo utilizzò delle ortiche e, in preda alla rabbia e al dolore, fuggì sbattendo furiosamente i piedi e creando così la spaccatura della valle.

Sentiero della Volpe Pescatrice

Per vedere il Fiordo ci sono tre modi. O lo si guarda velocemente dall’alto, lasciando abusivamente la macchina in prossimità del 23esimo km della strada statale (dove tra l’altro non c’è assolutamente spazio per parcheggiare, fatta eccezione forse per gli scooter). Ci si sporge dal ponte e via.
Oppure, se le attese dei mezzi pubblici non vi spaventano, è possibile prendere un bus della Sita, linea Positano-Amalfi.

La terza alternativa è quella di raggiungerlo a piedi partendo da uno dei paesini del vallone, raggiungibili abbandonando la costa e salendo la valle con l’auto (o con un autobus, eventualmente).
Raggiunto il paesino di Sant’Elia bisogna imboccare il sentiero della Volpe Pescatrice. Dal piazzale del Carmine, in prossimità della Chiesa di Sant’Elia, inizia una scalinata che scende verso il mare percorrendo quello che era l’antico sentiero dei contadini-pescatori. Si tratta di circa 40 minuti di discesa con una visuale mozzafiato sulla costiera.
Il percorso non è per niente complicato, ma certo è consigliabile indossare un paio di scarpe da camminata o da tennis, o comunque calzature estive sportive e comode.
Questo perché poi una volta che ci si è goduti il Fiordo si deve risalire il sentiero per recuperare la macchina….E se all’andata era discesa, al ritorno sarà salita.

Bordo dei pescatori al Fiordo di Furore

Arrivando al Fiordo sembra di tornare indietro nel tempo. Ad accogliere i visitatori ci sono i monazeni, le antiche case dei pescatori ormai disabitate, incastonate tra le rocce con gli intonachi colorati sbiaditi, e le barche adagiate sulla sabbia della piccola spiaggetta.
Una targa ricorda che Roberto Rossellini e Anna Magnani vissero in questo antico borgo la loro storia d’amore. Difficile non sognare lo stesso.
Guardando in alto si scorge proprio il ponte della statale, che forma un arco suggestivo verso il mare. Il torrente Schiato scende dall’altopiano di Agerola e attraversa la spaccatura del Fiordo riversandosi poi nel Tirreno.

Quel giorno il tempo non era stato dei migliori e l’acqua che bagnava la spiaggetta del Fiordo aveva un colore poco invitante. Ma pare che nelle giornate buone sia davvero cristallina e sicuramente una delle location più affascinanti dove trascorrere una giornata di mare in Costiera Amalfitana. La peculiare conformazione geologica assicura inoltre una temperatura più fresca rispetto ad altre spiagge. Se la vostra intenzione è quella di rosolarvi al sole tenete presente che qui lo potete trovare solo nelle prime ore del pomeriggio!


UNA CHICCA GASTRONOMICA! Siccome quel giorno ci ha colti un temporale estivo, abbiamo cercato di ingannare l’attesa con una tappa culturale e gastronomica che mi sento di consigliare. Agerola, un paesino lì nei dintorni, è famoso per il formaggio fiordilatte. Fate una tappa al caseificio! Quello che abbiamo trovato noi si chiama Belfiore. Ad accoglierci c’erano tre signore che parlavano degli affari loro in dialetto. Pare non sapessero che Agerola fosse famosa per il fiordilatte. Scrollando le spalle ci hanno risposto più o meno così:
Nun o sapevamo. Effetivamente ce magnamm tutte e juorne
(Non lo sapevamo, effettivamente lo mangiamo tutti i giorni)
E fu così che ci siamo mangiati mezzo kg di fiordilatte fresco, così, a mani nude come se fosse un panino, bagnati di pioggia e avvolti nei teli mare. Rifornimento di energia e salute prima della camminata. La vera merenda dei campioni!

Rimanete sintonizzati per scoprire le altre perle nascoste della Costiera Amalfitana!

[N.B. Le foto dell’articolo sono state scattate da M. Cucciniello]

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Restare umili in un posto figo: hike a San Fruttuoso

L’outfit è importante.
Percorrendo l’itinerario che porta da San Rocco di Camogli a San Fruttuoso, ho visto camminatori di ogni genere: adolescenti vestiti da rapper, ragazzine con tutina bianca e trucco perfetto, signore con borsetta griffata (poi infilata al collo nei punti più critici in cui le mani servono per tenersi alle catene), famiglie con bambini e cagnolini da salotto, ometti in mocassini e camicia di lino, ragazzi in (solo) mutande e addirittura uno con un pappagallino sulla spalla (che all’inizio pensavo fosse un’allucinazione da fatica).

Non ci sarebbe niente di male se si stesse passeggiando sul lungomare di Camogli, ma qui si sta parlando di un’escursione abbastanza impegnativa, con un discreto dislivello (circa 1.000 mt di dislivello totali). Non si tratta di un sentiero lineare, ma di un susseguirsi di rocce, radici, con tratti in cui bisogna un po’ arrampicarsi e tratti espositi in cui si procede con l’aiuto di catene. Non siamo al livello di una ferrata per carità, ma prendendolo alla leggera ci si può fare davvero male.

Dopo questa introduzione moralista e allarmista, mi accingo a dire che il percorso è stupendo e assolutamente panoramico. In diversi punti sarà obbligatorio fermarsi per ammirare il panorama a picco sul mare. D’altronde siamo nel Parco Naturale Regionale di Portofino, una perla naturalistica della Liguria. Ma bisogna affrontarlo con umiltà.

Sinceramente anche io avevo avevo sottovalutato la questione fatica, tenendo conto del dislivello solo per l’andata; infatti è molto diverso da quello che succede comunemente in montagna, dove una volta che si raggiunge la vetta, poi c’è la discesa. Siccome questo percorso è fatto di continui saliscendi, una volta arrivati alla meta, si torna indietro compiendo lo stesso dislivello dell’andata.

IN POCHE PAROLE
PERIODO ESCURSIONE: maggio 22
PUNTO DI PARTENZA: San Rocco di Camogli
DISLIVELLO: 850 m. circa
KM: 16 km circa (a/r)
TEMPO: 5,30 circa (a/r)

Scarica la traccia su Wikiloc: https://www.wikiloc.com/hiking-trails/hiking-da-san-rocco-a-san-fruttuoso-100128627
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La prima parte del sentiero è abbastanza semplice. Dal parcheggio di San Rocco si raggiunge la suggestiva piazzetta del paese e poi si prosegue su una stradina a mezzacosta con bellissime vedute sul mare e su Punta Chiappa, che volendo si può raggiungere prendendo un bivio dopo circa 300 m. circa di cammino.
Altrimenti si ignora il bivio e si attraversa la frazione di Mortola, dove il cuore si colma necessariamente di invidia verso chi ha la fortuna di vivere in questo angolo di mondo affacciato sul mare. C’è anche una scuola vista mare ormai abbandonata, nella quale chiederei subito trasferimento, se per l’appunto fosse ancora in funzione.

Dopoché il sentiero prosegue in un rigoglioso bosco, poi lecceta, fino a raggiungere la località Batterie, dove si trovano i resti delle strutture in cemento dell’osservatorio della 202esima batteria di artiglieria costiera del Regio Esercito. Fino a qui tutto easy e senza troppo sforzo, tutto procede ben segnalato e soprattutto abbastanza pianeggiante. Sempre in questa zona c’è l’ultima fontana dalla quale si può fare rifornimento di acqua.

Un timido cartello avvisa i gentili visitatori che da qui in avanti la questione si fa più complicata, che bisogna avere acqua e un abbigliamento adeguato.
Il percorso infatti diventa più tortuoso, “scalinato”, alcuni punti (come il Passo del Bacio) sono esposti e dotati di catene. Il panorama a picco sul mare è meraviglioso lungo tutto il percorso e l’entusiasmo fotografico mi ha costretto diverse volte a fermarmi (al ritorno invece non vedevo l’ora di arrivare ed ero più impostata in modalità #sticazziilpanorama #rivogliolemiegambe). Da questo momento però il dislivello inizia a farsi sentire, così come l’esposizione al sole. Si sale e si scende diverse volte; quando si pensa di aver superato l’ultimo colle ne salta un altro da risalire e da riscendere. Non so come facciano i camminatori occasionali, mal attrezzati, o i bagnanti estivi, a percorrere questo percorso per andare al mare.

Certo la bellezza della destinazione finale, ovvero la baia che ospita, incastonata tra le scogliere, l’abbazia di San Fruttuoso, fa passare tutta la paura.
Si tratta di un antico monastero benedettino che ospita le tombe della famiglia Doria e che è stato donato al Fai dagli eredi. Ovviamente ha una lunga storia, che potete tranquillamente visionare nel magico mondo dell’internet, e senza dubbio ha un enorme fascino (peccato solo che fosse chiuso alle visite quel giorno).

Io alla baia ci sono arrivata in preda allo sconforto, con le gambe a pezzi, caldo e sete. Il panorama però mi ha dato un po’ di fiato. Quel giorno il mare era in burrasca, tuonava schiaffeggiando le rocce e rubando con le onde lo spazio della piccola spiaggetta, ma nonostante questo aveva un colore pazzesco che faceva risaltare la bellezza del luogo.

Mi ha sorpreso appurare che la location, nonostante non fosse un “periodo turistico” dell’anno e nonostante il servizio traghetti non fosse attivo causa condizioni del mare, fosse ricolma di persone che, così a vederle, con il trekking e l’escursionismo non avevano niente a che fare. Ho iniziato a chiedermi se forse non ci fosse stato un sentiero meno impegnativo per tornare, perché l’idea di appendermi come un salame alle catene a picco sul mare non mi ispirava molto. Chiedendo a un turista a caso: “Scusi, sa se per tornare l’unica via è quella con le catene?”, mi sono sentita rispondere “Quali catene?” e il mio stato confusionale da prostrazione è aumentato.

In ogni caso, restando umile in un posto figo (cit. Pagante), dopo un pranzo al sacco rapido a base di nutriente focaccia con le cipolle (durante il quale cercavo di riprendere contatto con i miei arti inferiori), ho deciso che non avevo assolutamente voglia di rischiare di aggiungere km e dislivello prendendo un altro sentiero sconosciuto. Non ho avuto neanche la forza di salire ancora un pezzetto per raggiungere la Torre Doria, da dove poi si può proseguire il sentiero per raggiungere Portofino (per la cronaca, da San Rocco a San Fruttuoso si cammina 3 ore, invece fino a Portofino 5).
Dietrofront quindi.
Una volta conclusa l’escursione mi sentivo come si sente un alpinista dopo aver scalato l’Everest senza doversi amputare una gamba. Eroica quindi.

Il Parco Naturale Regionale di Portofino nasconde una pluralità di sentieri immersi nella natura e sicuramente in futuro mi piacerebbe esplorare ancora questo angolo selvaggio di Liguria.
Per visitare il monastero invece, mi sa che tornerò prendendo un traghetto! 🙂

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