Un balcone sulle Valli di Lanzo: a piedi verso i laghi di Sagnasse

Le Valli di Lanzo mi hanno sempre mandato in confusione, quella confusione di cui ho già parlato in un articolo precedente.
Dovevo intuirlo che, essendo un nome al plurale, in sé nascondeva altri tre nomi da dover ricordare e distinguere. Le Valli di Lanzo si dividono infatti in tre “sottovalli”: la Val Grande, la Val d’Ala e infine la Val di Viù. Ci vuol tutto che io sappia dove sia Lanzo, rispetto a Torino. Comunque poi da lì si aprono queste tre diverse Valli che nascondono una pluralità di itinerari imperdibili.

Vi avevo già accennato a due gite invernali gettonate che si possono fare in Val di Viù e in Val d’Ala, nello specifico sto parlando della faticosa ciaspolata a Punta Sourela e a quella più easy al Pian della Mussa con destinazione gustosa al rifugio Città di Ciriè. Queste due escursioni si possono compiere in tutte le stagioni, ma sono particolarmente suggestive negli inverni nevosi.

Adesso vi porto nella terza Valle di Lanzo, la Val Grande, diretti verso i laghi di Sagnasse.

IN POCHE PAROLE
PUNTO DI PARTENZA: Rivotti, 1.450 m., frazione di Groscavallo (To)
DISLIVELLO: 600 circa
KM: 11 km circa a/r
TEMPO: 3 ore circa a/r
Difficoltà: T/E
DATA ESCURSIONE: gennaio 22

Scarica la traccia su Wikiloc: https://www.wikiloc.com/hiking-trails/hiking-ai-laghi-di-sagnasse-valli-di-lanzo-100128544
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Il Sentiero Balcone Rivotti_Gias Nuovo Fontane ( da Rivotti sentiero n.321, “Crest”) si presenta adatto a un tipo di escursionismo livello schiappa come piace a me. La strada è per lo più sterrata, facilmente percorribile anche in caso di neve. Sale, ma con umiltà, alternando tratti ripidi e tratti in cui spiana, che danno la possibilità di riprendere fiato.

Il percorso è esposto al sole quindi adatto ai freddolosi che, come me, preferirebbero essere in spiaggia con le infradito. Se il tempo è clemente, trattandosi per l’appunto di sentiero-balcone, c’è una bellissima vista sul panorama. Si scorgono infatti le imponenti cime innevate che circondano la Val Grande. Lungo il percorso si incontrano diversi alpeggi, come le baite Alpe le Moie. In un tratto che non so indicare con precisione, se si tira sul naso, è possibile scorgere la “famosa” Pera Ciapel, ovvero due pietroni sovrapposti (in piemontese pera significa pietra) che non si sa bene perché siano finiti lì e come possano rimanerci in equilibrio.

La strada termina al Gias Nuovo Fontane, sulle pendici del Barrouard, ma noi abbiamo deviato per raggiungere i Laghi di Sagnasse. Più precisamente, dopo aver percorso il Vallone Segnasse (probabilmente il punto più panoramico del tragitto), si incontra l’Alpe Gias Crest e la deviazione.

Questo ultimo tratto, che si presenta proprio quando si pensa di aver schivato la fatica vera, risulta ripido, scalinato e impietoso..ma dura poco, circa 30 minuti. I laghi sono due, quello Inferiore a 2.053 m. e quello Superiore a 2,083 m.; ma non sono molto certa di dove ci siamo fermati perché ovviamente in inverno non si possono vedere, in quanto ricoperti di ghiaccio e neve. Ma vabbè, ci si può sempre stendere su uno degli imponenti roccioni ai bordi dei laghi per prendere il sole come lucertole o consumare il pranzo al sacco circondati da un panorama davvero invidiabile…promettendosi di ritornare!

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Rocca Sella, il rock garden della Val di Susa

Diffidare degli sportivi, soprattutto di quelli che praticano sport di montagna “masochisti” come lo sci alpinismo e la corsa in quota. Quando ti dicono cose del tipo: “È un sentiero molto semplice, panoramico..” devi già sapere che semplice per te, comune mortale-camminatore-schiappa, non lo sarà.

Il giorno della gita al Rocca Sella io già avevo fiutato possibili colpi di scena e infatti, poco tempo dopo la partenza, mi sono ritrovata letteralmente a gattonare su per quello che romanticamente si potrebbe chiamare un “rock garden”. Meno romanticamente invece si potrebbe definire un sentiero “che va su bello dritto”, concentrando 300 m. di dislivello in 1 km di rocce e radici.

IN POCHE PAROLE
PUNTO DI PARTENZA: Rifugio Rocca Sella, località Celle, quota 1.000 m.
DISLIVELLO: 510 m. circa
KM: 6 km circa a/r
TEMPO: 1,30 a/r circa
DATA ESCURSIONE: gennaio 22

Scarica la traccia su Wikiloc: https://www.wikiloc.com/hiking-trails/anello-rocca-sella-101455762
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Siamo in Val di Susa, partenza dalla località Celle, dove si trova il Rifugio Rocca Sella. Già che all’inizio del percorso ci sia un rifugio, invece che in vetta, potrebbe corrompere il camminatore alla ricerca di piaceri gustativi (categoria alla quale mi sento di appartenere). Essendo però accompagnata da escursionisti PRO che arrivavano da una precedente ferrata, non ho ceduto alla tentazione di fermarmi prima di partire. Mi piace mantenere un briciolo di dignità.

Il sentiero che parte dal rifugio inizialmente sale nel bosco senza particolari difficoltà. Come sempre, la cima mi guarda dall’alto e io guardo lei, lontana e irraggiungibile, senza troppa speranza di arrivarci. Si incrocia una strada asfaltata e, una volta giunti nei pressi dei lavatoi, si prende una mulattiera ciottolosa (n.575) che, se cosparsa di foglie come quando siamo passati noi, risulta un po’ scivolosa.

Un volta arrivati a un bivio, scegliendo completamente a caso, abbiamo imboccato il sentiero chiamato Tramontana, di cui accennavo all’inizio dell’articolo. Questo percorso sale senza pietà, tra radici e rocce, sulle quali ho potuto manifestare tutta la mia scarsa agilità procedendo spesso a quattro zampe.

Sappiate che per raggiungere la cima del Rocca Sella si può optare per altri percorsi, magari un po’ più lunghi ma meno impegnativi.
Ovviamente questo l’ho scoperto solo una volta giunta in vetta, quando con stupore ho trovato un affollamento che manco in via Roma a Torino…cani, comitive di gggiovani alla moda, ecc. ecc.

Da lassù si domina tutta la bassa Val di Susa, le Valli di Lanzo, il Musinè che svetta su Torino e la pianura canavesana. Qui si trova anche una piccola cappella-rifugio, sempre aperta e, sopra, la statua di una Madonna. Prima di scendere (questa volta sull’altro sentiero, meno ripido e roccioso), i più temerari possono raggiungerla arrampicandosi con l’aiuto di una catena.
Il panorama che si può ammirare dal Rocca Sella è davvero mozzafiato e quindi alla fine ti tocca dare ragione a chi ha proposto la sfacchinata.

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(Dedico questo articolo a Pigy, instancabile scalatore della bella vita)

Il Piemonte non è un cracker: mappe mentali per umili hikers

Prendere atto che la montagna nei dintorni di Torino si divide in un numero grandissimo di Valli dagli svariati nomi ha generato in me una forte confusione.
Io, piccola ligure antropologa alle prese con l’adattamento al territorio piemontese, mi sono sempre aggregata e adeguata a gruppi di camminatori più esperti senza sapere precisamente dove stessi andando. Per me andare in montagna significava muoversi senza chiari punti di riferimento, senza mappe alla mano e alla mente, senza punti cardinali. Era, per lo più, un seguire gli altri.
Per me era (ed è) importante andare, uscire dalla città dall’aria consumata, rigenerarsi e possibilmente non ammazzarmi di fatica…ma a sentimento (vedi filosofia “montagna-schiappa a questo link).
Con il tempo ho capito che a tutti quei nomi dati alle innumerevoli valli piemontesi corrispondevano altrettante zone ben specifiche del territorio, con le loro caratteristiche fisiche particolari.

Con la scoperta di app quali Strava o Komoot (se ti va segui i miei profili!), usate principalmente per ricordare il tragitto fatto e non per misurare la mia prestanza fisica, mi sono timidamente avvicinata alla topografia e, sopraffatta dalla grande varietà di scelta che regalano i dintorni montani di Torino, ho deciso di provare a dare un senso alla mia mappa mentale del territorio.

Una volta ho provato a disegnare (a memoria) la figura del Piemonte. Il disegno prodotto assomigliava più a una cracker morsicato invece che alla regione dove vivo già da diversi anni. Su un altro rudimentale disegno ho tentato di segnare tutte le valli che avevo sentito menzionare o dove sapevo di essere stata. Mi ci sono letteralmente persa. Ma poi ho capito che, dal basso della mia umiltà, di esplorazioni ne ho fatte diverse.

Ho voluto quindi fare ordine tra i miei ricordi. Ho rispolverato i miei appunti “di viaggio” e ho tentato di mettere nero su bianco le memorie delle mie “imprese” di basso profilo.

Nei prossimi articoli vi racconterò le mie umili esperienze di “hiking“. Mi limiterò a dare solo alcune vaghe indicazioni tecniche perché, vista l’innumerevole quantità di siti più specializzati, lo scopo degli articoli non sarà certo quello di darvi questo tipo di informazioni. Più che descrivere dettagliatamente i sentieri, vi parlerò con sincerità di come li ho sentiti (sia per quanto riguarda la fatica che per quanto riguarda la bellezza) con la speranza di potervi dare delle suggestioni.

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Se ne è andato l’arrotino! A piedi tra i borghi fantasma della Val Verdassa

«Signorina, stia attenta…in mezzo a quei massi ci possono essere dei serpenti!».
Mi pietrifico, restando con una gamba sollevata in osservazione, consapevole del fatto che sotto il caldo sole di agosto questo avvertimento non era poi così campato in aria. Era una signora anziana spuntata dal nulla a parlare, raggiunta poi da altri abitanti della borgata semidisabitata; silenziosi come fantasmi si erano avvicinati incuriositi dalla presenza di forestieri in esplorazione.

Stavo vagando tra i ruderi di Monteu, durante una passeggiata alla scoperta dei villaggi abbandonati della Val Verdassa. Questo vallone, chiamato anche Codebiollo, si trova in Piemonte e sbocca al termine della Val Soana, separando i territori dei comuni di Ingria e Frassinetto.
Stavo cercando la vecchia scuolina, che chiuse i battenti già negli anni 60 e nella quale dovrebbero essere ancora conservati gli antichi arredi. Ma niente da fare, tutto chiuso e ben sigillato. Sono riuscita solo a intravedere, sbirciando attraverso una finestrella sporca, l’alloggio dove viveva all’epoca la maestra, situato a fianco della piccola chiesetta del paese dedicata a Sant’Antonio da Padova.
In passato Monteu era la località più importante della valle e intorno agli anni 50 contava ben 158 residenti. Adesso il borgo è per lo più formato da macerie, tra le quali spunta qualche abitazione rimessa a nuovo per essere sfruttata nella bella stagione dai villeggianti in fuga dal trambusto della “civiltà”.

Monteu è solo una delle “borgate fantasma” della zona, che proprio per questo motivo, a mio parere, possiede un grande fascino. Al di là della camminata escursionistica nella natura di questo vallone impervio, è interessante scoprire la storia di questi luoghi ormai avvolti dal silenzio dell’abbandono.

Ma facciamo un passo indietro e ripercorriamo tutte le tappe del percorso, tenendo conto che non c’è un unico itinerario possibile, ma si può scegliere da dove partire.

Partendo dalla località Belvedere (m. 728), vicino a Ingria, e arrivando alla sperduta frazione di Beirassa, si fanno ridendo e scherzando 800 mt di dislivello complessivo e si possono impiegare circa 5 ore camminando lungo una mulattiera non sempre ben messa.
L’alternativa che abbiamo scelto noi, a causa del tempo limitato a disposizione, è stata partire dalla località Mulen del Sòli, poco più a nord di Frassinetto, e percorrere a piedi solo una parte del percorso (Querio, Monteu, Beirassa) per poi tornare indietro, riprendere la macchina e avvicinarci a Bech e Beitasso (in questo caso il tour dura poco più di 2 ore).

Dalla località Mulen del Sòli abbiamo imboccato il sentiero che poco più avanti incrocia una deviazione in salita verso la prima suggestiva tappa: Querio.
Questa piccola borgata, che si arrampica sul pendio a 1.300 m. e che un tempo era molto popolosa, è completamente abbandonata dagli anni 60. Le abitazioni sono in parte crollate e la vegetazione ne ha preso possesso. Pare che questo insediamento fosse già abitato dal XIII- XIV secolo, per poi espandersi nei secoli successivi.
Percorriamo il sentiero pieno di ortiche che si addentra nel borgo e cerchiamo di immaginare come doveva essere difficile la vita quassù.

La caratteristica degli abitanti di Querio, ma anche della vicina Monteu, era quella di dedicarsi al mestiere dell’arrotino. Da queste località sperdute, gli uomini partivano verso altre località del Piemonte, della Lombardia e della Liguria, lavorando in maniera ambulante, da paese in paese con la mola a spalle. Spesso erano ospitati da famiglie di riferimento per le quali affilavano gli attrezzi da taglio. Con la fine dell’inverno, gli arrotini facevano rientro a casa per potersi dedicare ai lavori agricoli.
Pare che gli arrotini, come accadeva tra altri artigiani della Valle Orco e Soana, avessero sviluppato un loro linguaggio, volutamente reso non comprensibile ad altre persone.

Tornando indietro per il ripido sentiero, si imbocca di nuovo la strada principale che conduce alla sopracitata Monteu. Un tempo questo borgo era collegato a Frassinetto solo da una mulattiera, che in caso di condizioni meteo sfavorevoli risultava pericolosa, anche perché attraversava dei torrenti. Per questo motivo le due frazioni di Querio e Frassinetto chiesero la separazione dal comune di Frassinetto, in favore di Ingria. Separazione che ottennero solo nel 1950.

Proseguendo lungo la via principale, si incontra il villaggio di Beirasso dove, nel silenzio assoluto dell’abbandono, giacciono la chiesa di San Lorenzo e il Cimitero di Codebiollo. Entrando nel piccolo cimitero, hanno attirato particolarmente la mia attenzione (oltre le numerose tombe di feti e bambini) le fotografie antiche delle tombe, soprattutto quelle delle donne.
Rigide, austere, senza il minimo accenno di sorriso. Da quelle espressioni traspare tutta la durezza della vita di allora; non c’era motivo di sorridere neanche di fronte a un obiettivo fotografico. D’altronde poi, forse, sapevano che queste fotografie sarebbero finite sulla tomba.
Niente a che vedere con le nostre tombe moderne, che mostrano immagini luminose, di persone sorridenti.
In quell’atmosfera tetra e quasi irreale non ho avuto il coraggio di scattare neanche una foto…anzi…ad essere sincera ci ho provato, ma non sono venute e poi a un certo punto un ramo mi ha toccato la spalla e, suggestionata, sono fuggita a gambe levate.
Atmosfera horror a parte, questo cimitero è comunque una piccola perla da vedere.

A pochi chilometri di distanza in linea d’aria da Beirasso, si trova la frazione di Bettassa, anch’essa ormai abbandonata, dove sorge la Chiesa di Santa Libera, eretta nel 1764. Poco distante da qui, si incontra Bech, “Lu pais dli Ruga”, recita una targa in legno che indica anche l’ecomuseo e il bivacco Valverdassa.
Lu Ruga non è altro che lo stagnino, il mestiere itinerante svolto dagli uomini di queste borgate, che costituiva l’unico modo di dare alla famiglia una vita dignitosa, vista l’asprezza di questi luoghi.
Anche gli stagnini, così come gli arrotini, si dirigevano verso il basso Piemonte e la Lombardia, prendevano una stanza in affitto nei luoghi in cui si fermavano per lavorare nella riparazione o per stagnare “ancurentar”, pentole e pentolini di rame. Sceglievano un angolo del paese e lo allestivano come fucina temporanea.

Il piccolo ecomuseo mette in luce e valorizza la storia degli ex abitanti di questo borgo, che rispetto agli altri sembra il più “vivo”. Anche qui, a fianco dei vecchi ruderi convivono abitazioni rimesse a nuovo e abitate.
La presenza di un piccolo bivacco, proprietà dell’associazione Amici di Beirasso, offre al visitatore di passaggio la possibilità di soggiornare in questo luogo immerso nel silenzio e dimenticare così la frenesia della vita cittadina, dedicandosi magari all’esplorazione di questo territorio ricco di itinerari escursionistici.
Sì, perché al di là dell’itinerario tra gli antichi borghi abbandonati, le mete possibili tra il comune di Ingria e si Frassinetto sono tante e per tutti i livelli di difficoltà…non ci resta che continuare ad esplorare!

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Grazie al Carso (2a pt): oltre i confini triestini

Sebbene Trieste non sembri una città adatta ad essere visitata in bici, abbiamo potuto constatare che invece può dare grandi soddisfazioni in questo campo. Inoltre abbiamo scoperto che, senza allontanarsi di molti chilometri dalla città, si possono trovare bellissimi itinerari da percorrere in bici immergendosi nella natura del territorio carsico e spingendosi oltre il confine italiano. Di seguito troverete la descrizione di due imperdibili piste ciclabili, la Parenzana e la Giordano Cottur, che dall’Italia portano fino alla Slovenia e alla Croazia.

PISTA CICLOPEDONALE GIORDANO COTTUR. La pista ciclopedonale Giordano Cottur parte praticamente dal centro di Trieste e raggiunge l’entroterra sloveno.
Dal rione di San Giacomo si accede alla Riserva naturale della Val Rosandra e si arriva fino a Draga Sant’Elia. Il percorso si sviluppa in parte sul tracciato della vecchia linea ferroviaria (Pola- Divaccia) che collegava la stazione di Trieste/Campo Marzio con quella di Erpelle. Durante il tragitto si passa quindi dentro ad alcune gallerie, più o meno illuminate e sicuramente fresche. Si pedala immersi nella natura, addentrandosi nel Carso che regala bellissimi scorci panoramici.
Il punto di arrivo è Hreplje in Slovenia, ma il cammino presenta numerosi punti di attacco, quindi si può iniziare e finire il giro dove più si desidera. L’itinerario non presenta un grande dislivello (fattibile quindi anche per una schiappa senza bici elettrica) e per lo più la strada è sterrata e semplice da percorrere.
Purtroppo a causa del meteo avverso non ci è stato possibile concludere il percorso. Ci siamo dati alla ritirata, tornando a Trieste sotto una pioggia battente!

IN POCHE PAROLE

KM: 16 km solo andata (il giro completo)
PUNTO DI PARTENZA: Trieste (via Orlandini)
PUNTO DI ARRIVO: Hreplje (Slovenia)
TIPO DI TRACCIATO: asfalto, sterrato, leggera salita
TRACCIA DEL NOSTRO GIRO: https://www.wikiloc.com/gravel-bike-trails/trieste-ciclabile-cottur-82757806

PARENZANA. Un’altra pista ciclabile imperdibile è la “Parenzana”, che segue l’antico tracciato austriaco che connetteva le due città di mare, Parenzo (in Croazia) e Trieste.
Ci sono diverse opzioni per iniziare questo viaggio. Quello consigliato dalla maggior parte dei siti internet parte da Muggia, che si raggiunge prendendo la barca “Delfino Verde” dal centro di Trieste. Noi, per motivi organizzativi e di tempo, siamo andati in macchina fino a Capodistria e abbiamo imboccato il tratto di ciclabile che passa accanto a un centro commerciale, vicino alla costa. Dalla città si passa velocemente alla calma del lungomare sloveno, organizzato per accogliere i bagnanti anche in assenza di vere e proprie spiagge. Poi ci si addentra un po’ nell’entroterra, in un paesaggio bucolico, tra colli, uliveti e viti. Anche qui passava la ferrovia e quindi alcune parti del percorso sono all’interno di gallerie. Il tratto di pista sloveno è semplice, pianeggiante. Pare invece che quello croato sia più impegnativo. Ma noi abbiamo lasciato da parte il nostro spirito sportivo e a un certo punto ci siamo fermati per goderci una mezza giornata di mare. Per l’esattezza ci siamo fermati in un grande prato subito dopo la località balneare slovena di Portorose. Da qui ci si tuffa direttamente dai grandi pietroni che delimitano la costa.
La Slovenia mi è parsa pulita, ordinata e organizzata. Non ci vivrei mai, perché al ristorante ci hanno snobbato in quanto italiani, ma ho fantasticato parecchio su come la vita sarebbe più facile, forse, in un Paese dove vivono solo 2 milioni di abitanti.

IN POCHE PAROLE

KM: 118 km (solo andata, l’itinerario completo) /18km (da Capodristria a Portorose)
PUNTO DI PARTENZA: consigliato da Muggia (in alternativa da Capodristia)
PUNTO DI ARRIVO: Parenzo, Croazia
TIPO DI TRACCIATO: asfalto, sterrato, saliscendi
TRACCIA DEL NOSTRO GIRO: https://www.wikiloc.com/hiking-trails/pista-ciclabile-parenzana-81691587

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Grazie al Carso (1a pt.): Trieste e dintorni in bici

– Cos’è quell’edificio bianco lassù sulla collina?
– Noi a Trieste la chiamiamo Chiesa Formaggino.
– Sembra un ecomostro…
– Ma no..i triestini sono affezionati alla Chiesa Formaggino. In teoria dovrebbe ricordare la lettera M di Maria, invece a noi sembra un formaggino.

La Chiesa Formaggino ci ha osservati dall’alto del Monte Grisa durante la nostra permanenza a Trieste, città nella quale ero stata un paio di volte solo di passaggio (la prima volta per trascorrere il capodanno tra i monti della Carnia).

L’estate in quei giorni era esplosa impietosa, con un caldo soffocante che ha rubato la scena alla tanto famosa Bora. Per fortuna la pioggia è venuta in nostro soccorso, rinfrescando l’aria e concedendoci respiro. Così ci siamo messi in sella alla bici (la mia come sempre elettrica…) e abbiamo esplorato questa splendida città dal passato austro-ungarico e i suoi dintorni (anche superando il confine sloveno), scoprendo una realtà per certi aspetti “ciclista-friendly”.

Di seguito potete trovare la descrizione degli itinerari e, cliccando sui link, potete scaricare le tracce dei percorsi.

IL CENTRO CITTADINO E IL CASTELLO DI MIRAMARE. Siamo partiti dal centro cittadino costeggiando il mare.
Passando, nonostante il divieto di accesso, per il Porto Vecchio, abbiamo poi superato il quartiere marittimo di Barcola, raggiungendo infine il confine della città, dove troneggia sul mare il castello chiamato per l’appunto Miramare. Una meta incantevole e imperdibile, il castello “Nido d’amore costruito in vano” (come scrisse Giosuè Carducci) fu fatto costruire dall’arciduca Ferdinando Massimiliano d’Asburgo per poterci vivere con la sua amata Carlotta. In realtà la storia romantica finì malissimo perché l’arciduca fu fucilato in Messico e Carlotta, che a quanto pare perse il senno, visse lì solo qualche anno prima di essere trasferita in Belgio. Una storia senza happy end quindi.
Lo stile del Castello di Miramare è molto particolare, unendo elementi gotici, rinascimentali e medievali; l’interno si può visitare a pagamento. Intorno all’edificio c’è un incantevole parco ricco di alberi e piante, nel quale si può accedere gratuitamente (la bici bisogna lasciarla fuori o portarla a mano) per passeggiare, correre o rilassarsi leggendo un libro.

Tornado indietro e dirigendosi verso il centro cittadino, si può decidere di fare una breve “rampetta” e raggiungere il Faro della Vittoria. La conformazione fisica di Trieste non la rende una città facilmente percorribile in bicicletta a causa delle numerose salite, ma si può comunque visitare il centro storico rimanendo in sella e scegliendo l’itinerario in base ai propri interessi e alla capacità fisica. Una sosta obbligata per ogni ciclista goloso è lo storico Buffet da Pepi, aperto dal 1897, dove è possibile gustare diversi piatti a base di carne e il famoso panino con la porcina.

IN POCHE PAROLE
KM: 30km circa
DISLIVELLO: 302 m.
ALTITUDINEMAX: 107 m.
TIPO DI PERCORSO: anello
TEMPO: relativo
TRACCIA: https://www.wikiloc.com/hiking-trails/castello-miramare-trieste-81692487
GUARDA SU STRAVA: https://www.strava.com/activities/5632257666

CHIESA FORMAGGINO. La scalata alla Chiesa Formaggino in bici è stata una di quelle idee che fantastichi in silenzio ma non ti azzardi a esprimere, perché ti sembrano una follia e un vero atto di masochismo. Ma come dicevo all’inizio, LEI ci osservava dall’alto fin dal primo giorno della nostra breve vacanza triestina. Abbiamo anche provato ad andarci in macchina di notte, per ammirare il panorama stellato da lassù, ma siamo arrivati dopo la chiusura. Una guardia notturna sostava in modo abbastanza inquietante dentro un’auto vicino al cancello di accesso all’area. Noi abbiamo guardato gli orari del cartello e poi abbiamo provato a intenerire il guardiano per strappare un permesso speciale. La sua risposta: “Vale il cartello”. Categorico.

E quindi un giorno abbiamo ceduto al suo richiamo e siamo partiti un po’ a caso con l’obiettivo di raggiungerla dal centro di Trieste, in bici, perché noi siamo sostenibili (e masochisti).
Se appartenete alla categoria di ciclista PRO o sportivo-masochista-che-si-diverte-a-soffrire, è un itinerario che consiglio perché ti spacca.
Se siete schiappe in e-bike come me, assicuratevi di avere una batteria di riserva per il vostro mezzo, che si scaricherà alla prima impressionante “rampetta”: la SCALA SANTA o RAMPIGADA. Questa salitona si trova all’inizio del tragitto, con 300 metri di dislivello in soli 2km, pendenza tra il 10 e il 20%.
Bici scaricata subito, pur avendo fatto comunque fatica. Tutto il resto è stato panico e santi del paradiso.

La Chiesa è una struttura interessante, costruita in cemento armato negli anni 60 del ‘900. Il suo vero nome è Tempio nazionale a Maria Madre e Regina ed è un santuario mariano cattolico.
In ogni caso, bici o non bici, arrivare alla Chiesa Formaggino vale la pena. Da lassù infatti c’è un panorama sul golfo davvero spettacolare, che la rende una tappa quasi obbligatoria.

IN POCHE PAROLE

KM: 26 km circa
DISLIVELLO: 542 m.
ALTITUDINE MAX: 397 m.
TIPO DI PERCORSO: anello
TEMPO: relativo
TRACCIA: https://it.wikiloc.com/percorsi-escursionismo/scalata-a-chiesa-formaggino-81692987
GUARDA SU STRAVA: https://www.strava.com/activities/5637665722

Dopo aver esplorato la città in bici, è il momento di varcare il confine triestino e raggiungere la Slovenia. Nel prossimo articolo vi racconterò altri due imperdibili itinerari!

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Dai colli dell’Infinito al mar del Conero

Ci sono tanti modi per farsi odiare dai propri amici durante una vacanza. Uno di questi è sicuramente costringerli a visitare in pieno agosto il borgo natale di Giacomo Leopardi.
Sì. Giacomo Leopardi. Proprio lui. Il famoso poeta-filosofo che parlava di pessimismo cosmico, di natura matrigna, della condanna all’eterna infelicità dell’uomo, ecc. ecc., e che troppo spesso viene superficialmente catalogato come artista “depresso e sfigato”.

Ho sempre amato Giacomo Leopardi. Già alle superiori, mentre le mie coetanee si truccavano a vicenda e pensavano al weekend in discoteca, io fantasticavo e accarezzavo l’idea di visitare, un giorno, la sua Recanati, lassù sull’ermo colle del Monte Tabor.
Proprio come Giacomino, anche io in gioventù ho nutrito una specie di odio e intolleranza verso il paesello dove sono nata. E proprio come lui ho sempre cercato di andarmene, per poi spesso ritrovarmi costretta a tornare.

Una cosa bisogna dirla, però, su Recanati. Non ha niente a che vedere con il mio paese di origine. Io sono nata all’ombra di due ciminiere dell’Enel, circondata da fabbriche di tutti i tipi. Recanati invece è una perla incastonata tra i suggestivi colli marchigiani e visitarla non può che fare bene al cuore.

A Recanati tutto parla del famoso poeta. Nella piazza centrale, chiamata per l’appunto piazza Giacomo Leopardi, spicca il suo busto, eseguito per il centenario della nascita. Passeggiando tra le vie lastricate è possibile leggere, scritti sulle pareti delle case, i versi più celebri.
Il paesino sembra essersi trasformato in una specie di sobrio Disneyland letterario, con tanto di negozi di souvenir con l’immagine o le poesie dello scrittore.
Sulla celebre piazzetta del “Sabato del villaggio” si affaccia la casa natale di Leopardi, nella quale tuttora vivono discendenti della sua famiglia. Dal 2020 è stata aperta al pubblico una parte del piano nobile e gli appartamenti dove Giacomo abitò insieme ai fratelli. E’ possibile visitare anche il museo permanente per ripercorrere la sua vita e l’evoluzione filosofica.

Non avrei mai pensato di trovare così tanti turisti, per lo più italiani, a Recanati in una rovente giornata di agosto. Eppure, per acquistare i biglietti per visitare la casa e il museo ho fatto un’ora e mezza di coda! Ovviamente, sono stata lasciata in condizione di solitudine esistenziale a scontare la mia pena per aver inserito questa tappa culturale all’interno del “Marche o Morte roadtrip”.

Un altro punto a favore per Recanati è la sua poca distanza dal mare; non il Mar Adriatico carico di “gelatine” (le medusine tanto innocue quanto appiccicose) e dalle acque basse e torbide. Si parla della Riviera del Conero, un promontorio a picco sul mare che nasconde incantevoli cale dall’acqua cristallina.
Dopo la scottante visita alla città leopardiana, abbiamo proseguito quindi pieni di aspettative per tuffarci finalmente in mare e conoscere almeno una delle spiagge che offre la riviera.

[N.B. In epoca covid 2020 per accedere alle spiagge era necessario prenotare con apposita applicazione, ma vista l’alta affluenza di visitatori noi non siamo riusciti e quindi l’accesso ci sarebbe stato consentito dopo le 18]

Per tutta una serie di questioni impreviste (ricerca rifornimento con navigatore impazzito, chiacchierata di 40 minuti con venditrice di meloni sulla strada e sessione fotografica tra girasoli morti con lo sfondo del famoso santuario di Loreto), ci abbiamo messo un tempo infinito ad arrivare alla meta prescelta. Quando siamo giunti alla spiaggia del Frate, il sole se ne stava già andando, ma abbiamo potuto comunque godere della pace della spiaggia svuotata e fare un bagno rigenerante alle luci del tramonto.

Il Parco e la Riviera del Conero sono senz’altro tra i luoghi in cui vorrò tornare, poiché il tempo non è stato sufficiente per esplorare bene la zona.

Per il momento il nostro viaggio è terminato! Se te le sei perse, clicca qui per leggere la prima e la seconda tappa del tour marchigiano!

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Direzioni casuali tra i colli umbri e marchigiani

Non ricordo il vero motivo, ma a un certo punto delle nostre peregrinazioni tra le colline marchigiane ci siamo ritrovati a vacare il confine regionale e, dopo una breve tappa serale nella meravigliosa Perugia e una colazione sulle rive del Trasimeno, all’ora di pranzo ci siamo trovati all’interno di una specie di locanda di Gubbio specializzata nella cucina della Crescia.

Il bello di viaggiare in auto e di (dis)organizzarsi in autonomia le vacanze è che talvolta si procede un po’ a sensazione. Le Marche sono una terra immensa da scoprire e di certo non si può esaurire in un solo viaggio. Consapevoli di ciò, durante il nostro road trip abbiamo cercato di cavalcare il tempo e ignorare i chilometri di spazio che ci separavano dalle mete da raggiungere. Ne abbiamo macinati, di chilometri, per saltellare da un punto all’altro, tra le lamentele di chi pativa la guida del nostro chofer (l’unico in possesso di patente di guida) e i briefing sulla direzione da prendere fatti quando eravamo già in movimento.


La Crescia di Gubbio è leggermente diversa da quelle marchigiane che avevo provato fino a quel momento; è più spessa e sembra quasi una focaccia. Salsiccia, cipolla e stracchino…e passa la paura. Ognuno ha il cammino spirituale che si merita.

Dopo aver soddisfatto quindi i nostri palati, per smaltire abbiamo fatto due passi nella medioevale città di Gubbio, soprannominata “città grigia” per il colore dei blocchi calcarei con la quale è stata costruita. Sulla Piazza Grande, una vera e propria piazza “sospesa”, si affacciano il Palazzo dei Consoli, con la sua facciata gotica, e quello Pretorio.
Dalla piazza, cuore pulsante della città, si può ammirare lo splendido panorama sulla valle.
Non potevamo lasciare Gubbio senza compiere tre giri intorno alla Fontana dei Matti ubicata di fronte al Palazzo del Bargello. Si narra che lo straniero che compie tre giri di corsa intorno alla fontana e accetta di essere bagnato con l’acqua della stessa, diventa cittadino di Gubbio con il titolo di “Matto onorario”.

URBANIA e LA CHIESA DEI MORTI

A pochi chilometri dal nostro campo base, Urbino, si trova Urbania, piccolo borgo incastonato tra sinuose colline e bagnato dal fiume Metauro.
A Urbania abbiamo visitato un luogo particolare, dal gusto un po’ macabro. Si tratta della Chiesa dei Morti. Fondata nel 1380, ospita al suo interno il cosiddetto Cimitero delle Mummie ed è diventata una vera e propria attrazione turistica. Nell’attesa del nostro turno per la visita, ho notato il certificato di eccellenza di Trip Advisor esposto con fierezza all’interno della cappella.
Nel Cimitero dei Morti sono esposti 18 corpi mummificati, i quali furono ritrovati nel 1804, periodo in cui un editto napoleonico istituì i cimiteri extraurbani. La particolarità di questi corpi risiede nel fatto che la mummificazione è avvenuta naturalmente, ovvero una sorta di muffa ha essiccato i cadaveri succhiandone gli umori.
La sistemazione di questi corpi, esposti dietro l’altare della chiesa, era avvenuta a cura della Confraternita della Buona Morte, gli scopi della quale erano il trasporto e la sepoltura dei defunti, l’assistenza dei moribondi e la distribuzione delle elemosine ai poveri.
Ognuna di queste mummie ha una sua storia, che il custode-guida racconta ai visitatori con entusiasmo, compiacendosi forse delle espressioni esterrefatte e turbate degli ascoltatori. Tra le mummie, vi è il priore della Confraternita della Buona Morte, Vincenzo Piccini (vestito con la tunica bianca e nera della cerimonia funebre), una donna deceduta di parto cesareo, il giovane accoltellato (del quale è esposto il cuore essiccato trafitto dal pugnale), e lo sventurato che fu sepolto vivo in stato di morte apparente.


PEGLIO e L’UOMO CHE SISTEMA LA LUNA
Sulla via del ritorno abbiamo scorto, immerso nelle luce del tramonto, un piccolo borgo arroccato su una collina. Abbiamo deciso così di raggiungerlo e ci siamo ritrovati nel grazioso borgo di Peglio. Subito ci siamo intrufolati in un negozio di alimentari che, vista l’ora, stava chiudendo e ci siamo procurati un vinello, delle patatine e dei bicchieri. Io ho comprato anche una confezione di Cresce, così, giusto per aggiungere una nuova tipologia alla mia collezione di carboidrati d’asporto. Dopo aver scambiato quattro chiacchiere con il gestore, Anacleto, siamo saliti in cima al colle, abbellito da suggestivi cipressi (per rimanere in tema cimiteriale). Qui spicca una torre, sulla quale si scorge la sagoma di un uomo che, in piedi su una scala, sembra sistemare la luna nel cielo. Ai piedi della torre, seduti nell’erba, abbiamo consumato il nostro aperitivo improvvisato, ammirando il paesaggio dei colli e il tramonto tra i cipressi.

Nella prossima tappa del nostro viaggio ci dirigeremo più a sud, alla ricerca dell’infinito!
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Marche o morte, il road trip tra sacro e profano

  • Una triestina nata a città del Messico e residente in UK
  • Un filosofo serbo con la scritta “L’extracomunitario, I come in peace” sulla maglietta
  • Un piemontese puro sangue delle risaie del vercellesi emigrato sulle colline marchigiane, in veste di assistente sociale e guida turistica allo stesso tempo
  • Una ligure (io) amante del Sud America e ormai da tempo cittadina torinese

…tutti insieme appassionatamente seduti sulla spiaggia di Baia Flaminia (Pesaro) di fronte a un tramonto eccezionale con un bicchiere di bianco in mano.
L’unica cosa in comune è l’esser stati vagabondi per il mondo nella vita precedente e di avere incrociato le reciproche strade in alcune di queste peregrinazioni. Le reti sociali che si tessono nella vita possono prendere strane forme. In questo caso hanno preso la forma di un road trip alla scoperta dell’entroterra marchigiano, un viaggio tra sacro e profano che abbiamo nominato scherzosamente “Marche o morte”, perché organizzare una vacanza in epoca Covid non è un’impresa facile.

Dopo l’aperitivo di benvenuto, da Pesaro abbiamo risalito le colline del Montefeltro fino a raggiungere quella che sarebbe stato il nostro campo base in questa vacanza: Urbino.
Di questa incantevole città, che trasuda storia, arte e cultura, si narra già ovunque nel web. E’ infatti la città natale di Raffaello ed è anche un vero e proprio museo rinascimentale a cielo aperto, che può saziare gli sguardi di ogni visitatore. Non sarò io quindi a dirvi cosa visitare a Urbino. Mi limito a dire che nel mio cuore sono rimasti impressi due scorci: il panorama sulle colline del Montefeltro e la vista sulla città dal parco della Fortezza di Albornoz.

Il mio stomaco invece è stato saziato grazie alla gastronomia locale. E’ qui che è nato il mio grande amore a prima vista per la Crescia, sorella della piadina romagnola, ma più “porcosa” grazie al bagno di strutto. Come ho scoperto nel corso del mio viaggio, la Crescia prende sembianze diverse a seconda del luogo in cui viene prodotta ed è diffusa anche in Umbria. Questa delizia, nella zona di Urbino, è riempita con prodotti tipici come il Salame di Montefeltro, il Prosciutto di Carpegna, il Pecorino di fossa e soprattutto con la Casciotta.
Il mio amore si è trasformato in adorazione e dipendenza, tanto che ovunque andassi ho dovuto provare la variante del luogo. Pura scienza antropologica.

Ma al di là del cammino spirituale tra i carboidrati e i grassi, nel nostro viaggio a tappe tra le colline marchigiane abbiamo scoperto delle perle nascoste che testimoniano come l’uomo sia stato in grado di creare una connessione con la dimensione sacra attraverso l’ambiente naturale.

Ecco le due principali con qualche informazioni all’Alberto Angela.

MONASTERO DI FONTE AVELLANA

Immerso nei boschi delle pendici del Monte Catria, nell’entroterra della provincia di Pesaro e Urbino, riposa il Monastero di Fonte Avellana, luogo avvolto da un’aurea di misticismo e spiritualità. L’Abbazia fu fondata da un gruppo di eremiti alla fine del X secolo; negli anni si ampliò fino a diventare un vero e proprio monastero, potente sia dal punto di vista economico che politicamente.
L’Eremo è citato anche da Dante nella Divina Commedia; pare infatti che anche il sommo poeta fu ospitato qui.

Attualmente ospita una decina di monaci e organizza incontri, seminari, ritiri spirituali. Il turista di passaggio (e profano) come noi, invece, può respirare la suggestiva atmosfera di questo luogo immerso nella natura partecipando alla visita guidata all’interno del monastero, durante la quale è possibile vedere la Biblioteca, la Sala di San Giovanni da Lodi, lo Scriptorium (dove i monaci trascrivevano a mano antichi testi latini e greci), il Chiostro, la sala del Capitolo e la Cripta.

All’esterno vi è l’Antica Farmacia, dove nel Medioevo i monaci producevano “medicine” con le erbe officinali che coltivavano. Adesso vengono venduti prodotti naturali e genuini, come il miele, le marmellate, gli amari e i saponi.
Per gli amanti del trekking, la collina offre numerosi itinerari a piedi, come il Sentiero della Grotta di San Pier Damiani e Sentiero anello Rocca Baiarda. Per mancanza di tempo e di attrezzatura utile, non abbiamo potuto sperimentarli, ma sono sicuramente un valido motivo per tornarci.

TEMPIO DI VALADIER

L’uomo e la natura si incontrano nella cornice del meraviglioso Tempio di Valadier, santuario ottocentesco incastonato nella roccia e immerso nel cuore del Parco Naturale Regionale della Gola della Rossa e di Frasassi. Siamo in provincia di Ancona.
In passato questo luogo è stato usato come rifugio dalla popolazione locale alla ricerca di un nascondiglio sicuro dai saccheggi, per poi diventare meta di pellegrinaggio per i peccatori in cerca di assoluzione.
Il Tempio, ultimato nel 1828, ha pianta ottagonale ed è costruito interamente in bianco marmo travertino. All’interno ospitava la statua della vergine con il bambino di Antonio Canova, ora sostituita con una copia.
Ma a mio parere il suo fascino è dato soprattutto dalla cornice naturale in cui si trova; la sua cupola in piombo sfiora la parte sovrastante della parete rocciosa della montagna.

Poco distante dal Tempio si trova l’eremo di Santa Maria Infra Saxa, o Santuario della Madonna di Frasassi, ben più antico e anch’esso suggestivo poiché scavato nella roccia di una grotta.

Il percorso per raggiungere questo luogo non è difficile, sale per circa 300 metri di dislivello. Il sentiero parte dalla strada principale, che costeggia la Gola. E’ largo e lastricato, con pendenza lieve, percorribile a piedi ma anche in bicicletta.

Il viaggio continua nel prossimo articolo! Nel frattempo, guarda le più belle foto sul mio profilo Instagram (macaia_libre)!

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Un panino in vetta. La montagna in inverno senza rifugi

Visto che nell’inverno 2020/21 i rifugi sono stati chiusi per molto tempo, il mio ventaglio di esperienze montane si è arricchito di mete più “selvatiche” e di panini gelidi sbranati in vetta. Di certo, potendo scegliere, opterei per una meta con rifugio caldo e polenta concia, ma in fin dei conti la mentalità “montagna schiappa” può essere rispettata anche con un pranzo al sacco “intelligente” che comprende cibo, vinello, grappino e thermos di tè e caffè bollenti.

Ecco alcune gite fattibili anche per chi, come me, non è molto portato per la camminata su manto nevoso (per capire a cosa mi riferisco clicca su questo articolo). Le informazioni tecniche sugli itinerari le trovate cliccando sul link del sito Gulliver.

Non dimenticate di leggere l’articolo sugli itinerari-schiappa con tappa in rifugio!

Punta Sourela
Valli di Lanzo, Colle San Giovanni

Questa è stata la gita della mia prima esperienza con le (odiate) ciaspole. Niente da ridire sul paesaggio, bello per tutto il percorso e spettacolare in vetta. Si sale per due ore, due ore e mezza, quindi la camminata è fattibile per chi, al contrario mio, è abituato a camminare sulla neve. Nessun rifugio all’orizzonte, ma la vista da lassù ripaga la fatica.

Clicca qui per le info tecniche: https://www.gulliver.it/itinerari/sourela-punta-da-col-san-giovanni/

Punta dell’Aquila
Valle di Susa

Si sale percorrendo le piste di ex impianti sciistici. Quindi si sale e non spiana mai. Per raggiungere la Punta dell’Aquila, a 2.120mt., si deve camminare su manto nevoso per circa due ore e mezza. Per raggiungere la tappa intermedia, a 1.860 mt, noi ci abbiamo messo due orette. La scritta SALVINI CAROGNA dipinta sulla struttura decrepita dell’ex impianto sciistico è stata per noi una vera perla. Senza nulla togliere ovviamente alla visuale sulle Alpi Marittime e sul Gruppo del Monte Rosa.
Al punto di partenza del percorso si trova il rifugio/ristorante Alpe Colombino, dove eventualmente ci si può fermare a fine gita.

Clicca qui per le info tecniche: https://www.gulliver.it/itinerari/aquila-punta-dell-dallalpe-colombino-3/

Cima del Bosco
Alta Val di Susa

Il percorso per raggiungere Cima del Bosco attraversa un suggestivo bosco dove si cammina per circa due ore… e non spiana quasi mai! Anche se ho detto che queste mete non contemplano il pranzo in rifugio, in realtà questo itinerario dà l’opzione della scelta ai rifugio-lovers disposti a partire presto. Infatti, nel borghetto dal quale parte l’itinerario, si trova il rifugio Fontana del Thures, che per l’appunto si affaccia su una splendida fontana seicentesca a pianta ottagonale. Se le condizioni meteo sono buone, il pranzo al sacco in vetta regala comunque gioie.

Clicca qui per le info tecniche: https://www.gulliver.it/itinerari/bosco-cima-del-da-thures/

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