Non so cosa porti l’uomo a cercare di raggiungere le vette. Forse è l’idea di avvicinarsi al divino, fatto che spiega la presenza di croci e statue della Madonna sulle cime principali. Oppure è il bisogno di superare un limite, mettersi alla prova e, dopo aver fatto fatica nella salita, sentire una sorta di sollievo e sensazione di potenza e libertà.
Quel che è evidente è che negli ultimi anni sono sempre di più le persone che si sono avvicinate all’escursionismo, hiking, trekking o come lo si vuol chiamare.
Tutto molto bello, a parte il fatto che tali croci e Madonnine siano diventati più che altro sfondi da selfie per Instagram e spesso sono talmente affollati da scacciare la sensazione di pace.
Io ancora non so come sia possibile per me aver raggiunto la vetta del Corno Grande del massiccio del Gran Sasso. Nei giorni precedenti questo enorme pezzo di roccia, buttato lì nel mezzo dell‘immenso Campo Imperatore, aveva fatto da sfondo al nostro viaggio alla scoperta dell’Abruzzo. Il nome che gli è stato dato non è un caso, sembra proprio un grande masso, pura pietra spigolosa, che ci osservava indifferente dall’alto dei suoi 2.912 metri.
Quando siamo partiti a piedi da Campo Imperatore non sapevamo che fine avremmo fatto. Ci siamo svegliati all’alba per tentare di sfuggire al sole impietoso dell’estate 2022 (e già così mi sentivo un’eroina) e come primo e umile obiettivo c’eravamo posti quello di raggiungere il Rifugio Duca degli Abruzzi, cosa che abbiamo fatto abbastanza agilmente. Questo percorso infatti è adatto davvero a tutti, trattandosi di un sentiero non difficile (T), con un dislivello di 260m e percorribile in circa 40 minuti.
Raggiunta la prima meta ci siamo guardati intorno, iniziando ad assaporare la bellezza del paesaggio che questa montagna avrebbe saputo regalarci.
Così abbiamo proseguito, seguendo un cartello che indicava la direzione per raggiungere il Corno Grande attraverso quella che è chiamata la via normale (c’è anche la direttissima, che si percorre in arrampicata) e che indicava in maniera ottimistica due ore di tempo di percorrenza.
In realtà le ore di percorrenza si sono moltiplicate: un po’ perché i luoghi e i panorami sono talmente belli che è impossibile non fermarsi ad ammirarli, un po’ perché dopo il primo tratto su un sentiero semplice, circondati da erbetta verde, trallallà trallallero, inizia la parte un pochino più impegnativa, fatta di pietre, ghiaia scivolosa, punti “scalinati” in cui i glutei implorano pietà.
Mentre salivamo con fatica cercando di non romperci le caviglie, dei pazzi furiosi scendevano correndo emettendo versi da animali rabbiosi. Stavano partecipando a una gara di corsa in montagna e solo vederli mi faceva venire male alle giunture. Avrei voluto fermarli, gridargli: “Ma cosa state facendo??”, ma come saette volavano giù dal pendio.
Quel giorno c’era tantissima gente a camminare e molti, così alla vista, sembravano escursionisti alquanto improvvisati. Oltre all’attrazione magnetica della vetta, sicuramente vedere così tanta gente in cammino ci ha fatto sottovalutate l’impresa e ci ha dato coraggio per proseguire, anche quando una bella parete di ghiaia e roccia ci si è stagliata davanti annunciando, dopo più di due ore di cammino, un altro 400 metri di dislivello.
L’ultimo tratto è il più complicato. Si passa per un canalone e bisogna far leva su gambe e braccia per tirarsi su. Ogni tanto dall’alto potrebbe cadere qualche pietra e, come è successo a noi, potreste incontrare macchie di sangue di chi si è fatto male precedentemente. Questo sentiero è segnalato (ma non sui cartelli in loco) come EE, ma senza dubbio avere con sé un caschetto sarebbe una cosa molto furba.
Più volte ci siamo chiesti se fosse il caso, probabilmente il nostro cervello ci ha anche risposto di no, non essendo escursionisti esperti e forse neanche giustamente attrezzati con caschetto. Ma alla fine siamo andati avanti e ci è andata bene, ma questo percorso non è assolutamente da sottovalutare…è faticoso e potrebbe essere pericoloso. Sicuramente non è adatto a camminatori improvvisati e a chi soffre di vertigini.
Dopo la salitona rocciosa nel canalone, si arriva quasi in vetta. Da qui già si può scorgere, dall’altro lato della montagna, quel che resta del ghiacciaio del Calderone, unico ghiacciaio dell’Appennino e anche quello più a sud d’ Europa. Ciò che ne restava, in questa calda estate 2022, è davvero poco. Per arrivare alla fatidica croce dei selfie, bisogna farsi coraggio e proseguire lungo una parte in cresta. Il panorama da lassù è davvero incredibile e spazia su Campo Imperatore, sulle cime dell’Appennino centrale e anche, se siete fortunati con il meteo, sul mare.
Qui il senso di vertigine si mescola con l’emozione di un’immensità che lascia senza fiato e ti fa sentire come un piccolo sputo nell’universo.
Poi la sensazione mistica deve lasciare il posto alla discesa infernale, durante la quale bisogna fare ancora più attenzione che all’andata a causa del terreno roccioso, pietroso e scivoloso.
Durante gli ultimi km di percorso, una pietra è caduta dall’alto e facendo un botto tremendo si è scontrata con una roccia che l’ha fatta rimbalzare e schivare la mia testa (per questo dico che sarebbe meglio il caschetto). Poco dopo è scoppiato un improvviso temporale, ma fortunatamente noi eravamo vicini all’arrivo…è stato automatico invece preoccuparsi per quelli che, innocentemente, stavano tentando la salita a orario già tardo.
Bagnati fradici, stanchi morti e adrenalinici, ci siamo preparati all’ultima notte nel bellissimo borgo di Santo Stefano di Sessanio per poi ripartire in direzione Majella!

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