Sono un bambino. Sono un lavoratore. E lotto.

Maria non si era mai vista in una foto. La sua prima foto gliela scattai e regalai io. Ricordo ancora il suo sorriso e la sua emozione per questo semplice dono.
All’epoca gli smartphone non esistevano ancora. O meglio, non erano diffusi tra le persone comuni neanche in Europa, figuriamoci nel deserto del sud del Perù.
Io lavoravo nella Commissione per i Diritti Umani della Regione di Ica, occupandomi di formazione e sensibilizzazione nei distretti con il più alto indice di violenza verso l’infanzia. Portavo sempre la macchina fotografica con me e scattavo foto per la rendicontazione delle attività che svolgevamo.

Maria era la Dirigente del gruppo NNATS (bambini e adolescenti lavoratori organizzati) de La Venta, una comunità rurale a mezz’ora dalla città di Ica. Aveva 15 anni e come Dirigente aveva il compito di riunire i minori lavoratori della sua zona, discutere con loro le diverse problematiche e valutare possibili soluzioni anche attraverso il confronto con i leaders adulti della zona.
La sua “base” (ovvero il suo gruppo NNATS) si chiamava CANNTA, campesinos adolescentes y niños trabajadores organizados (contadini, adolescenti e bambini lavoratori organizzati) perché tutti i suoi membri lavoravano per l’appunto in ambito agricolo. Erano occupati nella coltivazione o nella raccolta di verdura, frutta e cotone.

Lo so, lo so, associare la parola “bambino” alla parola “lavoro” fa orrore a tutti. Pensare a un bambino che lavora fa una certa impressione a noi abitanti dei Paesi ad alto reddito. Vederlo con i propri occhi, mentre lucida scarpe o vende canchita per la strada, all’inizio fa sentire a disagio. Dico all’inizio, perché quando le situazioni le conosci in modo più approfondito, la cosa fa meno impressione.
Certo, in un mondo ideale i bambini non dovrebbero lavorare, ma giocare e vivere un’esistenza serena e priva di responsabilità. Ma a volte la realtà è ben diversa dall’ideale…oltre al bianco e al nero ci sono le sfumature.

In Perù ci sono circa 2 milioni di bambini e adolescenti lavoratori, anche se il lavoro minorile ufficialmente è illegale. Però è accettato. I rappresentanti dei movimenti siedono allo stesso tavolo degli adulti quando è il momento di prendere decisioni. Si parla di bambini tra i 6 ai 17 anni, che vanno sia scuola che al lavoro per aiutare le loro famiglie a sostenersi, per comprarsi magari proprio l’ uniforme scolastica obbligatoria. Si parla di bambini e adolescenti in grado di organizzarsi in autonomia, di parlare in pubblico e davanti alle autorità.
Il MNNATSOP è uno dei loro movimenti nazionali organizzati, simile ai nostri sindacati. A livello locale, ogni comunità ha un suo leader democraticamente eletto che, incontrandosi con altri leaders di bambini e di adulti, si mobilita e lotta per rivendicare i diritti dei minori lavoratori.

Ho visto con i miei occhi bambini delle elementari fronteggiare membri del Governo Regionale o dello stesso Parlamento. Cosa vogliono? Non che il lavoro minorile sia abolito, come sarebbe facile credere. Al contrario, vogliono che sia riconosciuto e quindi tutelato. “Un conto è lavorare per provvedere ai bisogni della propria famiglia, un altro conto è essere sfruttati o essere esposti al pericolo” mi è stato più volte detto.

I NNATS, malgrado arrivino da un contesto famigliare e socio-economico precario, non vogliono sentirsi vittime. “C’è una bella differenza tra vendere caramelle e mendicare” tengono a precisarlo sempre. Non vogliono sentirsi dire che i bambini dovrebbero solo giocare, facendosi imporre dall’alto una concezione dell’infanzia che non tiene in considerazione il contesto socio-economico in cui vivono.

Chiaro, le diseguaglianze del mondo dovrebbero svanire e il diritto all’infanzia dovrebbe essere rispettato ovunque. Ma fino a quel momento, probabilmente molto lontano nel tempo, bisogna mangiare qualcosa. E per mangiare qualcosa, in una famiglia numerosa e con scarse risorse economiche, tutti devono lavorare. E’ facile sentirsi dire da un NNAT: “Certo che voglio lavorare, sennò cosa mangio? Quello che cerchiamo è piuttosto la dignità del lavoro, il rispetto.”

Sebbene Ica sia una regione desertica, vive di agricoltura. Essere contadino nelle comunità vicine a Ica non significa solo condurre una vita umile, lavorare nei campi e vivere di sussistenza. No. Vivere da campesino significa vivere in condizioni di povertà. I terreni sono di proprietà di grandi imprese, per lo più cilene, che comprano la terra, fanno costruire pozzi e privatizzano così l’uso dell’acqua.
A La Venta non c’era acqua potabile. L’acqua scorreva solo due volte a settimana, tra l’altro solo in alcune ore. Alcune famiglie (molte delle quali sono scappate da Ayacucho e dalla sierra in seguito al terrorismo e alla violenza militare degli anni 80) in origine possedevano appezzamenti di terreno, ma sono state costrette a venderli a causa della mancanza di acqua e di soldi da investire per poter irrigare. Così i lavoratori dei campi tornano a casa con pochi soldi e sapendo di dover comprare il cibo proprio dalle stesse imprese che li sfruttano.

Maria lavorava in un’azienda che coltivava uva (probabilmente destinata alla produzione del tanto proclamato vino dulce e del pisco) ed era pagata 20 soles al giorno per lavorare 12 ore (1 euro sono 3, 50 soles).
Come insegna la nostra Madre Primo Mondo, la povertà non è una condizione naturale, ma spesso è frutto della ricchezza sconsiderata di qualcun’altro.

Il primo maggio i NNATS sfilano con il loro cartelli per la città. Anche io, in quell’anno di vita a Ica, ho sfilato con loro durante le varie ricorrenze. Questi bambini e adolescenti combattenti mi hanno fatto un grande regalo: mi hanno insegnato che bisogna saper guardare la realtà anche da un punto di vista completamente diverso dal nostro. Inoltre, con le loro storie e la loro lotta mi hanno insegnato il vero significato della parola RESILIENCIA.

Che la loro lotta continui, quindi!

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